2019 all’insegna del Bear market
Novelli (Lemanik): “Sarebbe opportuno che gli investitori si preparino a momenti molto difficili perché la recente discesa dei mercati finanziari non è una correzione”
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Dalle azioni ai bond, dall’oro al private equity, mai tante asset class sono finite in rosso come nel 2018. È l’effetto del clima da risk-off innescato da una serie di fattori: la guerra commerciale tra Cina e USA, le incertezze legate alla forma che Brexit assumerà al 29 marzo, il braccio di ferro tra Italia e UE sulla manovra – per ora risolto, ma resta all’orizzonte l’incognita delle elezioni europee – e, sullo sfondo, l’onda della politica monetaria accomodante che a poco a poco si ritrae.
Dopo dodici mesi di passione, i mercati globali si preparano dunque ad affrontare un altro anno complicato. Nella rassegna che segue analizziamo i principali temi per l’anno che verrà, a partire da una riflessione sulle novità normative che entrano in vigore o che troveranno ulteriore sviluppo e diffusione nel 2019. E che rischiano di avere particolare rilevanza per il settore della consulenza finanziaria e per i risparmiatori, in ragione di tutte le novità che si portano dietro.
La vera sfida della MiFID II inizierà nel 2019, a un anno di distanza dalla sua entrata in vigore. I risparmiatori si troveranno a fare i conti con le prime rendicontazioni dei loro investimenti. Fogli di carta che, come impone la normativa comunitaria di secondo livello, dovranno riportare i costi effettivamente sostenuti non solo in termini percentuali, ma anche in valore assoluto. E sarà allora che ci si renderà effettivamente conto di quanto le spese, anche quelle destinate a remunerare la rete distributiva, incidano sui propri investimenti.
Cosa succederà ancora non è dato saperlo, ma è facilmente prevedibile: i risparmiatori chiederanno spiegazioni al proprio consulente, si interrogheranno sulla bontà delle scelte prese in passato e cominceranno a guardare a strumenti più economici. Col risultato di far infiammare una guerra dei prezzi entrata nel vivo proprio nella seconda parte del 2018.
I piccoli investitori ne gioveranno, mentre gli attori dell’industria del gestito dovranno confrontarsi con la sostenibilità del loro business. In particolare le società di piccole dimensioni che, non potendo sfruttare le sinergie di scala al pari delle big, potrebbero trovarsi tagliate fuori da un mercato sempre più competitivo sul pricing. Dovranno quindi riorganizzarsi e giocoforza unire le forze, tramite alleanze o acquisizioni.
E la guerra dei prezzi porterà con sé un’altra grande sfida per l’industria: quella della disintermediazione. Grazie alla tecnologia, investire sta diventando sempre più facile. Si fa tutto in mobilità, da smartphone o tablet. E si può cominciare con piccolissime somme. Anche solo 5 euro. Niente obblighi di versamenti periodici, come succede per i Pac (Piani di accumulo di capitali) più tradizionali. Si investe solo quando si hanno le disponibilità, o quando si riesce a risparmiare qualcosina.
Con le applicazioni all-in-one, poi, diventa tutto più facile e automatico. Ne è un esempio Oval Money, l’App nata per favorire il risparmio e che poche settimane fa ha debuttato nel mondo degli investimenti, mettendo a disposizione dei clienti cinque portafogli di investimento tematici: tre con rischio basso e due con rischio moderato. Per iniziare bastano 50 euro e si può decidere di investire settimanalmente una percentuale (fino al 90%) dei risparmi accumulati (ci sono diverse modalità di risparmio: arrotondamento dinamico, versamento fisso, una percentuale delle entrate sul conto, e altre).
Oval Money va ad affiancarsi ad altre applicazioni già operative, come Gimme5 (di AcomeA Sgr), MoneyFarm e Tinaba. Anche altre sono pronte a lanciarsi in questo business. L’App per i pagamenti in prossimità, Satispay, è quasi pronta. Il futuro per i piccoli risparmiatori, quindi, potrebbe essere proprio questo. Pago, risparmio e investo. Tutto con pochi semplici “tap”. Una bella sfida per l’industria.
Tra guerre commerciali, politiche monetarie restrittive e instabilità geopolitiche, nel 2019 la complessità dello scenario economico globale si è trasferita con riflessi profondamente negativi sulle performance di tutte le asset class. In particolare, dicembre è stato il mese peggiore da febbraio 2009 per l’S&P 500 con cali superiori all’8%. I dati di Lipper aggiornati al 21 dicembre mostrano che prima della sosta natalizia gli investitori hanno venduto 34,6 miliardi di dollari dai fondi azionari.
Cosa è andato bene? Molto poco: il Brasile ha nettamente sovraperformato il resto delle Borse mondiali, con il Bovespa che segna +11,61% da inizio anno. Bene anche l’India, con il BSE SENSEX Index che segna +4,95% year-to-date. Bene il dollaro, +4,83% YTD.
Il mercato azionario sta dunque prezzando il rischio 2019 anticipando una prosecuzione – forse anche un inasprimento – del momentum negativo. Dove investire, allora? Gli esperti consigliano prudenza. Secondo Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos, in attesa che i mercati si abituino alla nuova normalità fatta di Banche centrali meno generose, gli investitori “possono rifugiarsi nel cash oppure puntare su oro e governativi”, Treasury e Btp in primis.
Senza trascurare i mercati emergenti, per un investimento a maggior rischio che va inquadrato nella giusta ottica temporale che è quella di medio lungo periodo, sottolineando che è in questi paesi che si concentrerà gran parte della crescita economica globale futura, trainata dall’incremento dei consumi interni. E tenendo sempre a mente che, seppur il nuovo ambiente richieda un approccio più prudente, correzioni al ribasso potrebbero anche offrire interessanti opportunità di entrata.
Dall’altra sponda dell’Atlantico gli stimoli monetari straordinari sono terminati da un pezzo. L’aumento di un quarto di punto dei tassi da parte della Federal Reserve – il nono dal dicembre del 2015, deciso alla riunione del 19 dicembre – ha portato il costo del denaro negli Usa fra il 2,25% e il 2,50%, con l’obiettivo di arrivare vicini al 3% l’anno prossimo, quando sono previsti altri due ritocchi all’insù.
La strategia della Fed viene comunque definita ‘morbida’, con il governatore Jerome Powell che si fa guidare non dai mercati ma dai numeri dell’economia reale: se ci sarà un rallentamento, gli aumenti dei tassi saranno ulteriormente diluiti. Inoltre le due principali banche centrali continueranno a seguire diverse traiettorie di normalizzazione, adatte alle diverse fasi del ciclo nelle rispettive economie.
Fed. I riflettori degli investitori globali sono puntati soprattutto sulla Federal Reserve. Tre i fattori di attenzione: i segnali dell’economia statunitense sono più eterogenei, l’impatto dalle politiche fiscali espansive comincerà a svanire nel corso dell’anno prossimo, mentre l’effetto dilazionato di una politica monetaria più restrittiva potrebbe cominciare a pesare.
Bce. Nel frattempo, la Banca Centrale Europea ha segnalato attraverso la sua politica di forward guidance che il primo aumento dei tassi di interessi avverrà intorno a settembre 2019, ma l’emersione di condizioni avverse – relative in particolare a politiche protezionistiche e volatilità nei mercati finanziari – potrebbe indurre la Bce ad abbandonare i suoi piani di normalizzazione prima ancora di iniziare a dispiegarli. In ogni caso l’azione delle banche centrali dipenderà dal segnale dai dati sull’economia. In questo senso la navigazione delle banche centrali è a vista e non si può escludere un repentino cambio di rotta nel caso in cui i rischi negativi per l’economia dovessero materializzarsi.
Il 2019 sarà un anno cruciale per la Brexit dal momento che – salvo provvedimenti d’emergenza nei prossimi mesi – il 29 marzo è la data prestabilita per l’uscita del Regno Unito dall’UE. Nonostante manchino solo poche settimane alla scadenza, non c’è ancora visibilità sull’esito delle trattative, a causa principalmente di dissidi politici domestici. Il primo ministro May ha raggiunto un accordo sulle condizioni di uscita con i partner europei, ma il testo non ha ancora l’appoggio del Parlamento. Per questo motivo la premier ha rimandato il voto a gennaio.
Gli scenari. Una sconfitta a Westminster dell’accordo UK-UE conferirebbe al Parlamento stesso più potere nel dirigere il processo. La danza degli accordi intra-parlamentari potrebbe condurre agli scenari più disparati: una “soft” Brexit (ricalcando il modello norvegese) o addirittura un rifiuto della Brexit, un secondo referendum, oppure la sfiducia al governo e nuove elezioni.
Uno scenario di “no deal” è anche possibile ma sembra improbabile, data l’opposizione della maggioranza dei parlamentari a un tale epilogo. In assenza di accordi in grado di assicurare una continuazione degli scambi commerciali e un regolare svolgimento delle attività economiche del paese, il Regno Unito entrerebbe probabilmente in recessione, con ripercussioni anche per l’economia dell’eurozona. Al contrario, una risoluzione della situazione sarebbe positiva per l’economia e per gli asset britannici, in quanto potrebbe sbloccare decisioni di investimento scoraggiate negli ultimi anni.
Nel frattempo, banche e istituti finanziari con sede a Londra e attività nel resto d’Europa hanno predisposto i “contingency plan” per l’uscita del Regno Unito, richiesti del resto dalla stessa Fca (la Consob britannica). Nel corso del 2018 gli annunci di trasferimenti da Londra verso l’eurozona si sono fatti più frequenti – a vantaggio soprattutto di Parigi, Lussemburgo, Dublino e Francoforte – ma un vero e proprio “Brexodus” non c’è stato. Tutto questo potrebbe cambiare nei prossimi 12 mesi, con potenziali ripercussioni sull’intera catena del valore dell’industria europea del risparmio.