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Tra il 2007 e il 2019 oltre il 60% delle offerte sono finite con l’addio alla Borsa. Intanto nel 2020 le operazioni di M&A in Italia sono aumentate del 37% a 75,6 miliardi di dollari
Solo in una minoranza dei casi lo strumento dell’Opa è servito effettivamente ad acquisire il controllo di una società in una contesa di mercato fra investitori concorrenti. Nella maggior parte dei casi, invece, l’offerta pubblica di acquisto è stata usata per portare le società quotate fuori dalla Borsa. A lanciare l’allarme è la Cosob, che alla luce delle conclusioni emerse dal Discussion Paper sull’attuazione della disciplina Opa in Italia, evidenzia come oltre il 60% delle offerte lanciate tra il 2007 e il 2019 su titoli azionari (109 su 174) hanno previsto l’ipotesi del delisting, con un recente trend di crescita passato negli ultimi cinque anni dal 50% al 90%. Non solo: per circa la metà dei casi, le operazioni sono state condotte da soggetti esteri, specialmente nel caso di quelle di maggiori dimensioni quanto a controvalore.
Lo studio ha analizzato 231 offerte, soffermandosi in particolare sulle 174, volontarie e obbligatorie, su titoli azionari. Di queste ultime, la tipologia di Opa a cui comunemente si pensa, cioè un’offerta ostile finalizzata ad acquisire il controllo di un’azienda quotata contro la volontà del management (e degli azionisti), si presenta solo in 10 casi.
Tra le offerte volontarie, in circa l’80% dei casi si tratta di operazioni condotte dall’azionista di controllo esistente che intende ottenere la revoca della quotazione. E l’obiettivo dell’uscita dal mercato è raggiunto nella quasi totalità dei casi: “solo nel 6% delle operazioni in cui era stato previsto esso non è avvenuto”, si legge nel report firmato da Federico Picco, Gianfranco Trovatore, Marco Ventoruzzo e Valeria Ponziani.
Insomma, se l’obiettivo di partenza della normativa era quello di favorire la contendibilità delle imprese, assicurare parità di trattamento fra azionisti di maggioranza e di minoranza in caso di passaggio di controllo in una quotata e migliorare l’efficienza complessiva del mercato finanziario, l’esperienza sul campo racconta un’altra storia.
“Fa riflettere – si legge nel report – una certa crescita delle operazioni di delisting, negli ultimi anni, relative a società ad ampia capitalizzazione, che spesso prescindono dalla presenza di una fase ribassista dei corsi azionari. In talune e ben note situazioni, inoltre, l’uscita dalla quotazione in Italia si è accompagnata alla quotazione in altro mercato europeo di diverso ordinamento. Ciò induce a interrogarsi sulle ragioni di una certa ‘disaffezione’ dalla quotazione e sulla competitività del mercato del capitale di rischio”. L’entita’ del premio tuttavia raddoppia nelle offerte finalizzate ad una business combination (circa 27% rispetto al mercato), specialmente in caso di offerta volontaria.
Lo studio analizza poi l’andamento dei corsi azionari, e quindi la redditività dell’investimento, nel periodo successivo alla conclusione dell’offerta. “I dati mostrano un andamento, in media, decisamente negativo tanto su un orizzonte temporale di un anno, quanto di tre anni, e sia in assoluto che in relazione a indici di mercato”. A questa performance sfuggono “le sole offerte finalizzate a una business combination”. È “innegabile – concludono i quattro autori – che il dato fa sorgere qualche preoccupazione sulla capacità del sistema di favorire operazioni di cambio di controllo che consentano l’ingresso di azionisti in grado di meglio gestire la società, o, in modo ancor più allarmante, sulla estrazione di benefici privati dal cambio di controllo”.
Nel 2020 crescono le operazioni di M&A in Italia
Intanto in Italia continuano ad aumentare le attività di M&A. Nel 2020 le operazioni che hanno coinvolto il nostro Paese hanno infatti registrato una crescita del 37% rispetto al 2019, per un controvalore di 75,6 miliardi di dollari.
È quanto emerge dal rapporto Investment Banking Italia 2020 redatto da Refinitiv, stando al quale oltre la metà delle operazioni è stata registrata negli ultimi tre mesi dell’anno per un totale di 38,4 miliardi di dollari: controvalore su base trimestrale che non si registrava dal primo trimestre del 2018. Inoltre, il rapporto evidenzia una crescita delle operazioni di grandi dimensioni, che compensano un calo del 23% del numero dei deal negli ultimi 12 mesi, a quota 1.240, il numero più basso dal 2015.
In particolare, le operazioni aventi come target società italiane hanno totalizzato investimenti per complessivi 60,6 miliardi di dollari (+92% rispetto al 2019), valori che non si registravano da cinque anni, finalizzate prevalentemente da operatori francesi (per 10,6 miliardi di dollari) e statunitensi (per 6,2 miliardi di dollari). L’attività domestica ha raggiunto il picco degli ultimi tredici anni, pari a 28,9 miliardi di dollari, mentre le operazioni sul territorio da parte di operatori stranieri sono triplicate fino a raggiungere i 31,7 miliardi di dollari. A livello complessivo, l’attrattività italiana è stata compensata da un rallentamento dell’M&A verso l’estero, pari a 12,8 miliardi di dollari nel 2020, con una diminuzione del 34% rispetto al 2019 e valore più basso degli ultimi tre anni.
In termini settoriali, Refinitiv rileva la dinamicità del settore finanziario, con un’incidenza del 43% sul totale valore, seguito da tlc (17%), industriali (8%), tecnologia (17%) e media (6%). Protagonista assoluto della stagione M&A 2020 è il settore dei pagamenti digitali con Nexi, che ha all’attivo i due maggiori deal dell’anno (Sia e Nets) per un controvalore complessivo di 12,7 miliardi di dollari, pari al 16,8% del totale italiano. Nel settore finanziario anche la terza e la quarta operazione per dimensione, ovvero rispettivamente l’acquisizione di Borsa Italiana da parte di Euronext e quella di Ubi Banca targata Intesa Sanpaolo.
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