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S&P taglia le stime di crescita per quest’anno e il prossimo. Peggio andrà gli EM europei. E non è detto che gli esportatori di materie prime se la caveranno meglio
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Mentre gli occhi dei mercati restano fissi sui negoziati tra Mosca e Kiev, si comincia a fare i conti dei danni a breve e lungo termine della guerra Russia-Ucraina. A pagare un prezzo salato, concordano in molti, saranno anche i Paesi emergenti. Ultima in ordine di tempo a puntare i riflettori su questi mercati è stata S&P, che ha abbassato le proprie previsioni di crescita del Pil reale al 4% nel 2022 e al 4,3% nel 2023, dal 4,8% e 4,4% rispettivamente.
Russia a parte, la maggior parte della sforbiciata riguarda gli Emergenti europei, mentre l’impatto del conflitto sulla crescita è previsto più contenuto altrove. Secondo gli autori del rapporto, gli shock negativi sull’offerta derivanti dall’aumento dei prezzi delle materie prime e dei costi logistici rafforzeranno l’aumento dei prezzi.
E non è detto che per i Paesi produttori di materie saranno solo vantaggi. Se infatti beneficeranno di prezzi più alti, l’inflazione dei prezzi al consumo nell’Em medio sarà di 1,2 punti percentuali più alta nel 2022 rispetto a quanto stimato da S&P a novembre, il che ne evidenzia l’impatto sul potere d’acquisto delle famiglie.
L’ampliamento della pressione inflazionistica significa che ora S&P si attende una politica monetaria più restrittiva nella maggior parte degli Em, nonostante l’impatto economico del conflitto, specialmente considerando che la Fed prevede una stretta più rapida. “Un prolungamento del conflitto tra Russia e Ucraina è un fondamentale rischio al ribasso per gli Em – avvertono gli analisti Usa -. I rischi simultanei di un inasprimento più rapido da parte della Fed e di un sentiment negativo degli investitori legato al conflitto potrebbero innescare volatilità sui mercati finanziari, portando a tassi di cambio più deboli e a rendimenti significativamente più alti”.
La view dei gestori
I rischi messi in evidenza dall’agenzia di rating a stelle e strisce sono condivisi anche da molti gestori. “La Fed può essere più graduale per quanto riguarda la stretta della politica monetaria, ma è probabile che alzi i tassi in uno scenario di crescita globale più debole. Ciò, sommato a un dollaro Usa più forte, crea un contesto complicato per i mercati emergenti”, evidenzia Tom Wilson, head of emerging market equities di Schroders, che segnala come per i Paesi importatori netti di materie prime, i prezzi più alti peseranno sulle partite estere e sulle valute. “Per i mercati emergenti a basso reddito, l’energia e i beni alimentari rappresentano tipicamente un’importante quota dell’indice dei prezzi al consumo (oltre il 50% per l’India e attorno al 20-40% in molti altri Paesi)”, sottolinea.
Al contrario, secondo Wilson i mercati emergenti esportatori di materie prime sono posizionati relativamente meglio. Questi Paesi si trovano principalmente in America Latina e in Medio Oriente. In Asia, anche la Malesia e l’Indonesia potrebbero beneficiare della situazione. “I mercati emergenti che sono esportatori netti di materie prime dovrebbero beneficiare della situazione, almeno nel breve periodo. Anche le valutazioni stanno cominciando a diventare interessanti, sebbene l’incertezza e le pressioni sugli utili potrebbero persistere nel breve termine”.
Sulla stessa lunghezza d’oda, Ben Robins, emerging markets debt, portfolio specialist di T. Rowe Price, secondo cui sono due gli elementi principali su cui la situazione ucraina può pesare: i prezzi delle materie prime e i flussi finanziari. “Per gli importatori di materie prime, come l’India, l’aumento dei prezzi delle materie prime è negativo in termini di shock commerciale, che probabilmente drenerà reddito dall’economia e genererà inflazione, portando al rallentamento dell’attività – chiarisce -. Per gli esportatori di materie prime, come il Brasile, l’aumento dei prezzi è positivo in termini di shock commerciale, e probabilmente guiderà l’attività economica e il miglioramento del credito”.
Secondo Robins, poi, le pressioni inflazionistiche possono portare le banche centrali degli Stati membri ad aumentare più volte i tassi e a mantenerli più alti più a lungo. “Questa situazione, finora, ha impattato solo parzialmente sui tassi locali emergenti, dato che i percorsi di rialzo aggressivi erano già stati prezzati in una certa misura” fa notare, mentre per quanto riguarda il debito estero emergente, a suo avviso “la Russia sarà ridistribuita uniformemente su una serie di Paesi; nel debito locale emergente sarà più concentrata, con Brasile, Thailandia e Malesia che guadagneranno quote di mercato”.
Più ottimista Kirstie Spence, gestore di portafoglio di Capital Group, secondo cui gli Emergenti erano già in prima linea nel combattere l’ambiente inflazionistico, sia perché gestire l’inflazione è un impegno quotidiano per questi mercati, sia perché le banche centrali stavano già affrontando i normali impatti ciclici dell’inflazione, sia perché alcuni Paesi sono meglio posizionati per essere maggiormente protetti dagli impatti della crisi (come Medio Oriente e America Latina).
“Nel complesso, le banche centrali si impegneranno maggiormente a sostenere la crescita una volta che avranno cercato di mitigare il pericolo imminente di un’inflazione più elevata, cercando di non compromettere sia la propria popolarità sia la fragile economia globale”, assicura l’esperta.
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