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L’unione fa la forza (dell’asset allocation). E la sfida tra attivi e passivi per le masse dei clienti evolve in una convivenza tutt’altro che forzata, bensì un esempio di come, in un portafoglio ben diversificato, il totale sia maggiore della somma delle parti. Sia in America che in Europa, infatti, il trend dell’utilizzo di attivi e passivi sta ruotando sempre più attorno alla convergenza dei due tipi di strumenti nei portafogli dei wealth manager internazionali.
Ma facciamo un passo indietro, partendo dai numeri. A riprova del divario che persiste tra strumenti attivi e passivi a livello globale, i fondi comuni dominano la scena a livello di masse in gestione con attivi per 26 trilioni di dollari (21,7 trilioni di euro) in costante crescita dai 15 trilioni del 2007*.
Ciò detto, nell’ultimo decennio sia l’Europa sia l’America del Nord hanno registrato un sostanziale aumento delle attività gestite da fondi passivi. Nel 2007 gli exchange traded funds (Etf) contavano masse globali per due trilioni di dollari (duemila miliardi). In dieci anni, queste masse sono quadruplicate a 8 trilioni (dati a fine giugno 2017).
Ma la differenza tra i due mercati rimane sostanziale, con i passivi che rappresentano solo il 14,6% degli asset in gestione in Europa rispetto al 30,6% delle masse gestite dall’industria del risparmio a stelle e strisce.
America, terra di passivi
Negli Stati Uniti, dal 2007 a oggi gli asset under management (Aum) dei passivi sono cresciuti da 1,3 a 5,8 trilioni. E oltreoceano il sorpasso in termini di raccolta è un trend iniziato nel 2012 e ormai consolidato. In particolare, gli ultimi due anni hanno registrato deflussi consistenti per i fondi attivi (-123 miliardi nel 2015, -183 nel 2016 e -83 nel primo semestre 2017) e, di converso, afflussi sempre maggiori per gli Etf (398 miliardi nel 2015, 493 nel 2016 e 378 nel primo semestre del 2017).


Barbara Wall managing director di Cerulli Associates
“Gli Stati Uniti hanno beneficiato di alcuni dei temi che favoriscono la crescita degli Etf, come l’appetito per prodotti low-cost, l’affermazione dei robo-advisor e lo sviluppo, dopo la crisi del 2007, della consulenza retribuita a parcella con un crescente numero di professionisti che prediligono prodotti caratterizzati da una struttura commissionale contenuta”, spiega Barbara Wall, managing director di Cerulli Associates, società di ricerca specializzata nel monitoraggio delle società di asset management e della consulenza finanziaria a livello globale. “Ciononostante, riteniamo che ci sia posto per i fondi attivi in ogni mercato”, prosegue Wall. “L’alternativa low cost non sempre è la più adatta, se l’obiettivo è generare alpha o se ci si trova in una differente congiuntura economica. È opinione diffusa che in caso di crisi di mercato, la linearità dei fondi passivi rispetto all’indice li renda inadatti a contenere le perdite. Quindi affermare che gli Etf sostituiranno i fondi comuni e domineranno qualsiasi mercato rappresenta una visione leggermente miope”.
L’istantanea del mercato scattata oggi potrebbe essere molto diversa tra cinque o dieci anni, spiega la specialista. “Al momento viviamo in un mondo in cui i tassi di interesse sono bassi, i rendimenti sono molto ridotti e gli sforzi del regolatore in materia di disclosure delle fee hanno reso gli investitori maggiormente consapevoli delle commissioni, spingendoli alla a ricerca di un’opzione più economica. Ma ci sarà sempre posto per un fondo attivo che può fornire l’esposizione e la diversificazione ai mercati tradizionali, agli strumenti alternativi o alle strategie tematiche. Gli Etf non possono fare tutto, non possono coprire ogni possibilità di investimento”.
Non sorprende allora che l’Europa sia rimasta terra di dominio dei fondi comuni, con un mercato in forte crescita per i gestori attivi. I fondi aperti sono passati da 2,5 a 4,1 trilioni nell’arco di dieci anni. E il 2017 ha le potenzialità per diventare un anno record, con il dato europeo di raccolta nei primi sei mesi dell’anno (312,3 miliardi di euro) già superiore alla raccolta dell’intero 2016. Stesso discorso per l’Italia, dove a fine luglio le sottoscrizioni da inizio anno superano i 67 miliardi, dato migliore rispetto alla raccolta dell’intero 2016.
Dal canto loro, nello stesso periodo i fondi passivi hanno visto le masse poco più che triplicare, dai 200 miliardi del 2007 agli attuali 700 miliardi.
Active & passive
C’è spazio per tutti, insomma. E il dibattito interno all’industria si sta progressivamente allontanando dalla contrapposizione ‘active versus passive’ al connubio di ‘active & passives’, con la possibilità per entrambi i prodotti di trovare spazio in un portafoglio costruito attraverso un approccio olistico.

Jonathan Willis Calastone chief commercial officer di Calastone
“Non è una scelta binaria”, afferma Jonathan Willis, chief commercial officer di Calastone, società tecnologica britannica attiva in 34 paesi che fornisce un servizio di automatizzazione delle transazioni in fondi attraverso una rete proprietaria per le case prodotto che si avvalgono di strutture distributive intermedie per raggiungere i clienti. “Se esaminiamo la performance rispetto ai costi, è probabile che le prestazioni dei passivi saranno comunque inferiori rispetto a quelle degli attivi, ma il loro utilizzo dipende anche dal profilo di rischio del cliente”, spiega Willis.
“Il cliente-tipo potrebbe affidarsi agli Etf per costruire una base su cui poggiare il resto del portafoglio, rinunciando alla sovraperformance ma abbattendo commissioni, costi e spese. Potrà poi rivolgersi ai fondi attivi per andare alla ricerca di maggior rendimento o per perseguire obiettivi d’investimento più specifici”, diversificando il rischio tra le diverse componenti del portafoglio.

Angelos Gousios
direttore della ricerca europea per il mercato retail presso Cerulli Associates.
“Le gestioni attive e passive si integrano molto bene”, conviene Angelos Gousios, direttore della ricerca europea per il mercato retail presso Cerulli Associates. “In presenza di mercati efficienti, gli investitori sono meno incentivati a utilizzare un fondo attivo, mentre in caso di inefficienze sono spinti a cercare opportunità e valore tra le pieghe dei mercati. Per questo motivo gli Etf possono formare un nucleo di investimento, ma la gestione attiva non potrà che rimanere una parte significativa del portafoglio, se non la più importante”, spiega Gousios.
“Pensiamo ai fondi multi asset, che permettono di variare l’esposizione mettendo al riparo dalle tempeste dei mercati, oppure agli asset manager che assoldano eserciti di analisti per scovare valore, spesso viaggiando e incontrando i vertici delle aziende in tutto il mondo. Tutto ciò aggiunge significato alla gestione e giustifica commissioni più elevate, bilanciate dall’economicità degli Etf in altri mercati. Ecco perché i due strumenti coesistono bene”.
Questione di asset class
È la filosofia che informa le decisioni di Brian Dunhill, direttore investimenti e fondatore di Dunhill Financial, società internazionale di consulenza finanziaria a espatriati americani e britannici residenti in Europa, con sede a Bruxelles, dove Dunhill è responsabile di un portafoglio di 65 milioni di dollari ripartiti su 140 clienti.

Brian Dunhill direttore investimenti e fondatore di Dunhill Financial
“La contrapposizione tra attivi e passivi non ha più senso, ormai i consulenti usano entrambi. Il mio criterio di scelta è quello di optare per i passivi laddove la media dei gestori difficilmente aggiunge valore”, spiega Dunhill. Il discrimine è fatto sulla base delle singole classi di investimento. “L’asset class per cui uso sempre i fondi attivi sono il reddito fisso e i mercati emergenti azionari. Negli ultimi dieci anni, i principali Etf che replicano l’indice MSCI Emerging Market hanno reso circa il 2% all’anno al netto delle fee (l’indice ha un rendimento annualizzato decennale del 2,43% a fine agosto 2017, ndr). Se pensiamo che un bond decennale americano rende il 2,5%, in un’ottica di rischio-rendimento capiamo subito che il gioco non vale la candela.
“Quindi, usiamo sempre manager attivi quando si tratta di mercati emergenti. Trovo che la riduzione del rischio, prima ancora di un maggiore rendimento, sia più preziosa delle commissioni da pagare per il valore aggiunto che apportano i gestori.
Vuoi che qualcuno sia selettivo per dire: Il Brasile non è la Russia. L’India è diversa dalla Cina, e magari non voglio essere così largamente esposto all’economia di Pechino (il peso della Cina nella composizione dell’indice MSCI Emerging Markets è attualmente pari al 30%, ndr)”.
Di converso, il ragionamento opposto si attaglia all’azionario americano, spiega il wealth manager. “È difficile aggiungere valore nei mercati statunitensi. Molti gestori lo fanno, ma a costi commissionali molto elevati. Quindi, preferisco essere passivo quando si tratta di investire negli indici europei, britannici e americani”.
Anche Cerulli conferma la tendenza a diversificare tra strumenti sulla base di un approccio orientato alle diverse asset class. “Per chi investe in titoli americani, in questo momento probabilmente non ha molto senso usare la gestione attiva. Lo stiamo vedendo in termini di flussi, con gli Etf che superano gli attivi nello spazio US equity”, afferma Gousios.
E questa tendenza di allocazione è effettivamente corroborata dai dati di raccolta in America, dove i fondi azionari attivi hanno lasciato sul terreno 507 miliardi nei due anni e mezzo compresi tra il 2015 e il primo semestre del 2017. Più contenuti i deflussi dei fondi azionari in Europa: -47 miliardi nel biennio 2015-16, con l’asset class in ripresa da inizio anno e afflussi per sei miliardi. Ma i distinguo non mancano.
“A prima vista, se si crede in mercati al rialzo, usare i passivi a un costo inferiore per massimizzare le prestazioni dell’indice rispetto alle spese può essere una strategia intuitiva”, afferma Willis. “Eppure questo è un modo piuttosto semplicistico di rapportare l’esposizione totale del mercato in un portafoglio geograficamente equilibrato”.
Effetto MiFID
Secondo l’esperto non esiste un metodo univoco, né soluzioni adatte ad ogni situazione.
“Scordiamoci di trovare una formula magica: non è mai esistita in questa industria, e non la troveremo neanche in futuro. Non si può pensare di investire in un’asset class solo con un prodotto specifico piuttosto che con un altro. Le cose sono più complicate di così”.
Soprattutto con l’avvento della MiFID 2, all’aumento della trasparenza nei costi di strumenti e servizi si accompagnerà l’affermazione di una clientela più sofisticata, che al posto di prodotti standardizzati richiederà una personalizzazione del servizio sempre maggiore.
“Di certo uno dei risultati della MiFID sarà che i clienti diventeranno sempre più esigenti”, sostiene Barbara Wall. “Nel momento in cui saranno esplicitate le commissioni, aumenterà il loro l’interesse a sapere per cosa pagano”.
Flessibilità, reattività e personalizzazione. Valori aggiunti che solo i consulenti, e non un robot, possono garantire. “Ci sarà sempre bisogno degli adviser”, ribadisce Wall, “Il futuro della consulenza ruota attorno alla richiesta di servizi ad hoc soprattutto nella metà superiore del mercato, il segmento medio-ricco”.
Secondo Willis la trasparenza in termini di strutture di costo che sarà introdotta dalla MiFID 2 – che a parere di alcuni osservatori potrebbe avvantaggiare l’industria degli strumenti passivi – potrebbe altresì rivelarsi strumentale a una maggiore penetrazione dei fondi attivi, se accompagnata ad una valorizzazione della qualità dei servizi erogati da parte di tutti i soggetti a monte del cliente.
“Non credo che la MiFID possa scoraggiare i risparmiatori a investire in fondi”, dichiara Willis. “Al contrario, potrebbe incoraggiare alcuni clienti a dire: ora che posso vedere la vera differenza tra attivi e passivi, sono più disposto ad incrementare la mia quota di fondi attivi pagando un costo aggiuntivo per ottenere performance superiori”.
*Elaborazioni di Last Word Research su dati Morningstar Asset Flows afferenti al Global Broad Category Group e indicanti i flussi totali verso strumenti attivi e passivi in America ed Europa dal 2007 alla prima metà del 2017, in trilioni di dollari (esclusi i fondi di fondi e i fondi “feeder”, che investono almeno l’85% delle attività in quote di un altro fondo, ndr).