I denti affilati della politica monetaria
Mentre si discute sui possibili scenari riguardo al conseguente rallentamento economico, se si tratterà cioè di soft o hard landing per questo 2023, l’asset class obbligazionaria sembra ancora vincente.
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Fed e Bce ora viaggiano nella stessa direzione. Quella di una politica monetaria più restrittiva. La banca centrale americana, più aggressiva, ha già alzato i tassi di interesse tre volte (la prima dello 0,25%, la seconda dello 0,50% e la terza dello 0,75%), portandoli nel range 1,50-1,75%; la banca centrale europea, invece, dovrebbe alzare per la prima volta i tassi dello 0,25% nella riunione di fine luglio, per poi alzarli ulteriormente a settembre di altri 50 punti base. L’obiettivo è comune: contrastare un’inf lazione che a maggio ha toccato l’8,6% negli Stati Uniti, il livello più alto dal 1981, e l’8,1% nell’area euro. Ma se l’intervento della Fed potrebbe davvero mettere un freno all’aumento del costo della vita (il picco forse è già stato raggiunto), quello della Bce potrebbe non risultare altrettanto efficace.
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Anzi, alla fine potrebbe addirittura rivelarsi un boomerang. “L’inflazione tra Stati Uniti ed Europa ha delle differenze importanti – spiega Angelo Baglioni, docente di Economia monetaria all’Università Cattolica e direttore dell’Osservatorio Monetario – In Usa, l’incremento del costo della vita è stato generato da un aumento della domanda, che è subito ripartita quando l’economia è stata riaperta. In Europa, invece, stiamo registrando la classica inflazione da costi, generata da un incremento dei prezzi dell’energia e delle materie prime. In più, ci stiamo avviando verso una situazione classica di stagflazione, che prevede la coesistenza di inflazione e assenza di crescita economica. In questo contesto una politica monetaria restrittiva, che tipicamente controlla la domanda aggregata, potrebbe non essere efficace”.
La ragione sta nel fatto che c’è un meccanismo di aspettative nel rapporto tra Bce e mercato che non può essere disatteso. La Banca centrale europea non può dare l’impressione di non fare nulla, altrimenti l’inflazione che si osserva entra nel tasso di inflazione atteso, generando ulteriori incrementi di prezzo e richieste di aumenti di stipendio. È quello che si chiama comunemente second round effect, ovvero un’inflazione che si autoalimenta e genera una spirale prezzi-salari. È importante quindi che la Bce dia un qualche segnale per cercare di arginare l’aumento del costo della vita, anche usando uno strumento che non sia pienamente efficace.
L’aumento dei tassi si porta dietro una serie di effetti, come l’incremento dei costi per chi ha un mu-tuo, che potrebbero frenare consumi e crescita. Ma lasciar correre l’inflazione senza far nulla vorrebbe dire che il potere di acquisto si riduce per tutti. Non dimentichiamoci che veniamo da un periodo di tassi di interesse molto bassi, praticamente a zero. E ora che la situazione emergenziale è alle spalle, è normale che si vada verso una politica di normalizzazione, che comprende la fine del quantitative easing ma anche un aumento dei tassi. Certo, l’arrivo della guerra ha complicato le cose, dando una spinta ai costi e quindi all’inflazione. La Bce, però, non può far finta di niente. Il pericolo è di ritrovarci in uno scenario come quello degli anni ’70.
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Per legge l’intervista integrale scarica il Dossier Reddito Fisso “Ritorno al futuro” a questo link.
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