Tra i quesiti che tengono banco in una fase come quella attuale, come sostituire i bond in funzione di stabilità del portafoglio, in presenza di rendimenti non adeguati ai rischi. Nell’industria a tenere banco sarà la polarizzazione tra grandi gruppi e boutique
Ci sono parecchi quesiti che tengono banco in una fase come quella attuale per le società di asset management e di wealth management, sostiene Giacomo Calef, country manager per l’Italia di Notz Stucki, boutique ginevrina fondata nel 1964 e specializzata nella gestione di grandi patrimoni. Oltre alla domanda delle domande – cioè quando finirà la pandemia e si avvierà la ripartenza – c’è il solito problema di come fare asset allocation in un mondo con rendimenti tendenti allo zero sull’obbligazionario. Mentre, a livello di mercato, mentre si va verso la polarizzazione tra società generaliste con servizi standard e boutique specializzate con prodotti e servizi tailor-made, ci si chiede chi verrà incontro alle esigenze dei patrimoni medi, e come faranno i detentori di patrimoni piccoli rimasti orfani dei Btp.
Notz Stucki ha adottato delle precise strategie per rispondere alle sfide dell’attuale contesto, che Calef ha illustrato a FocusRisparmio, che vanno dall’adozione di fondi con strategie long-short, a un posizionamento azionario sui “quality trend”, alla creazione di uno zoccolo obbligazionario anti-volatilità nel portafoglio tramite le convertibili. Ecco l’intervista per la rubrica #BigTalkFR di questa settimana.
Quali sono le principali sfide che devono essere affrontate nel 2021 dall’industria del risparmio gestito e del wealth management?
Il problema di questi tempi è dove mettere i soldi. Nel nostro caso, il 2020 per i nostri clienti si è chiuso positivamente, con buoni risultati dalle posizioni sul mercato azionario, soprattutto tematico – parlo in particolare di MedTech, clean energy e megatrend che noi definiamo “quality trend” – su cui considerando anche l’effetto cambio ci sono delle posizioni che chiudono a +20, +30, perfino +40%. Ma anche se appunto si tratta di posizioni su tematiche di lungo termine, con esposizione a società per le quali si prevede una crescita dei profitti, si pone comunque il dilemma se cristallizzare in parte il guadagno conseguito finora. Per questo motivo, a inizio anno iniziamo ad alleggerire alcune di queste posizioni, non perché non ci crediamo più ma perché riteniamo che sia giusto fare un passo in avanti e consolidare i guadagni.
Dal punto di vista obbligazionario, eravamo fuori dall’universo high yield e magari i rendimenti non ci hanno dato ragione. Ma abbiamo comunque deciso di sposare una strategia secondo la quale il rendimento deve bilanciare i rischi che si stanno assumendo, e soprattutto in una fase in cui tutto il mondo è in recessione a parte la Cina, e le agenzie mettono in guardia sul rischio che su questa categoria raddoppi il tasso di default, il rischio è eccessivo. Non avevamo bond high yield rima e non li abbiamo nemmeno adesso, le nostre posizioni sono soprattutto sui corporate investment grade, che rendono pochissimo ma teniamo fintanto che il rendimento è sopra lo zero. Ma abbiamo cercato di bilanciare i portafogli, più che basandoci sulla definizione e obbligazione, tenendo in considerazione la volatilità: per questo motivo, sul fronte obbligazionario abbiamo aggiunto obbligazioni convertibili, badando a selezionare gestori che avessero come obiettivo quello di dimezzare la volatilità rispetto al mercato azionario. Ci sono in giro fondi di convertibili eccezionali, ma con una volatilità vicina a quella del mercato azionario. Questo ha senso quando si prendono convertibili come proxy sull’azionario, ma se invece si usa a complemento dell’obbligazionario, allora occorre scegliere un gestore che cerca di contenere la volatilità.
Quali sono le strategie che possono funzionare bene in un contesto di mercato come quello attuale?
Un tema che ci sta a cuore, visto che siamo nati come società che selezionava gestori hedge, sono le strategie long-short, in questo momento un tantino trascurate. Sono strategie mutuate dagli hedge fund ma adottate in prodotti Ucits che offrono maggiore protezione all’investitore. Queste strategie potrebbero essere una buona soluzione per chi va a caccia di rendimento, anche in Italia dove tuttavia si sta spingendo più verso investimenti alternativi in private equity, private debt, eccetera, che comportano però una maggiore difficoltà a liquidare le posizioni e sono assimilabili per le tempistiche all’investimento immobiliare.
Mentre le strategie hedge declinate come Ucits, magari con Nav settimanale, ma con posizioni sottostanti liquidabili in un tempo congruo, aiutano ad avere uno zoccolo del portafoglio con volatilità più contenuta. Per la la nostra clientela italiana abbiamo messo quasi solo fondi Ucits con strategie long-short: azionario globale, Europeo, UK, e nel 2021 aggiungeremo un fondo long short sulla Cina. Su alcuni portafogli avevamo posizioni lunghe sul mercato cinese, che ha prodotto ritorni di oltre il 20%, per la logica di consolidare le performance passeremo a un gestore long-short basato in Lussemburgo ma cinese, perché si tratta comunque di un mercato complesso. In questo modo andiamo a riempire il tassello di quella parte di portafoglio che dovrebbe avere una volatilità più contenuta, una funzione che prima era svolta dall’obbligazionario, ma ora non più, come abbiamo visto lo scorso marzo.
Perché tra le strategie long-short citate non ce n’è una sugli Stati Uniti?
Sugli Stati Uniti siamo stati più direzionali con i temi citati in precedenza, perché i titoli growth sono per la maggior parte americani, mentre non abbiamo ancora identificato un buon gestore long-short americano nel formato Ucits. Si tratta di un mercato piccolo e i gestori particolarmente bravi non sono tanti.
Eppure c’è stata una fase in cui non si sentiva che parlare di strategie long-short, poi sembra che l’entusiasmo si sia affievolito…
È cosi, e in parte si è trattato di scelte commerciali. È più facile far comprendere agli investitori gli investimenti nell’economia reale, anziché il concetto di strategia long-short che si applica a prodotti complessi di derivazione hedge. Ma noi nel 2020 abbiamo inserito tre di queste strategie che hanno chiuso tutte con risultati positivi tra il 7 e il 15%, è andato bene perfino quella sul mercato europeo che ha archiviato l’anno in negativo. E ora oltre all’aggiunta di un long-short cinese stiamo anche valutando due gestori market-neutral (che dovrebbero apportare un rendimento indipendentemente dalle condizioni di mercato).
Quali sono le sue previsioni di mercato sul 2021?
Ci si aspetta una parziale rotazione verso i titoli value, che è già stata avviata, anche se per avere conferma che non sia stato un movimento tattico bisogna capire come va la curva dei contagi. A livello geografico, ritengo che sull’area europea ci sono margini per investire, perché il mercato non è ancora totalmente positivo. Dato che la situazione sanitaria resta quella più difficile da prevedere, il primo semestre potrebbe essere più volatile sui mercati azionari europei, ma ci sono opportunità sui titoli con buoni fondamentali che hanno risentito della crisi ma con la ripresa dell’economia vedranno il prezzo di borsa riallinearsi ai migliorati dati di bilancio, e soprattutto sui titoli ciclici. Sugli Stati Uniti continueremo a mantenere l’esposizione sul settore clean energy, anche se ha già corso molto, perché ci aspettiamo che l’amministrazione Biden agevolerà lo sviluppo delle tecnologie pulite, che riceveranno una spinta anche dalla trasformazione avviata dalle aziende private e, in Europa, dal Green deal. E poi ci aspettiamo che sarà l’anno della Cina, che non può più essere valutato come un mercato emergente.
Quali sono le dinamiche che terranno banco nell’industria del risparmio gestito e del wealth management in Italia?
Da una parte vedo una prosecuzione nella polarizzazione dei grandi gruppi. Con la fusione Intesa-Ubi è ripartita la gara (giusta) verso la creazione di player più grandi. Ma quando hai gruppi di grandi dimensioni, con un grande numero di clienti, devi anche standardizzare una parte dei servizi. Le boutique per conto loro dovranno essere sempre più forti e puntare a target sempre più alti, come già si vede dalle società anglosassoni e svizzere presenti in Italia, che stanno aumentando le soglie di asset minimi per investire con loro.
Sotto una certa cifra ci sarà una gran varietà di prodotti più o meno standardizzati, al di sopra invece ci sarà una richiesta crescente di strumenti diversi e di un rapporto più personalizzato per i propri investimenti. Pian piano, inizieranno a sparire le vie di mezzo: da un lato avremo gruppi bancari con prodotti captive, dal fondo alla polizza, dall’altra la boutique che apre a soluzioni soprattutto di terzi, con un altro tipo di servizio e grado di personalizzazione. Credo che questa dinamica sarà il vero game changer dell’industria.
Un’altra dinamica che mi aspetto è che anche in Italia a un certo punto vengano applicati gli interessi passivi sulla liquidità. Vediamo che con la pandemia è cresciuta la giacenza nei conti correnti degli italiani, e questo per le banche è un costo. Stano già cercando di spingere i clienti a non tenere la liquidità ferma sui conti, ma potrebbero a un certo punto iniziare ad applicare oneri passivi, come già accade altrove nel mondo.
Si aspetta che la tecnologia, per esempio la diffusione di strumenti basati sull’intelligenza artificiale e il machine learning, possano cambiare il volto dell’industria?
Vedo la tecnologia sotto due punti di vista: da una parte la digitalizzazione è uno strumento di accesso, ma deve essere sostenuta dalla diffusione di un’adeguata cultura finanziaria. Se invece parliamo di tecnologia applicata agli investimenti, sicuramente siamo già un po’ soggiogati dalla tecnologia, non solo in termini positivi (basti pensare a come il trading ultrarapido da anni impatta sui movimenti di mercato amplificando le perdite). Se parliamo di intelligenza artificiale, ci sono software che riescono ad adattare le decisioni di investimento al venir fuori di nuove informazioni, ma occorre vedere se davvero possiamo delegare tutto alla macchina. Credo che il ruolo del professionista e della sua competenza sarà sempre essenziale, così come l’importanza di una cultura finanziaria adeguata.
Quale sarà la “parola d’ordine” nel 2021?
Se mi chiede quale sarà il più grande interrogativo, ritengo che sarà ancora quanto durerà la pandemia e quando arriverà l’uscita dalla recessione. Alla luce dei dati, temo che ci metteremo tutto il 2021 e il 2022 per uscire dalla crisi. Molti degli aspetti della pandemia non li abbiamo ancora visti, ma verranno fuori drammaticamente quando verranno meno blocchi e agevolazioni.
L’altra domanda è come faranno i detentori di piccoli patrimoni, abituati a comprare Btp, a investire in un contesto di rendimenti nulli e costi altissimi. Forse l’unica soluzione sarà comprare tempo, investendo tramite i piani di accumulo, per cercare di contenere la volatilità e fare acquisti che derivano da un meccanismo automatico e con un orizzonte più lungo. L’unico vero modo per avere un risultato positivo nel medio termine su clienti più piccoli.
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