La prima fase della normalizzazione è finita e le banche centrali tornano (o rimangono) accomodanti. E in uno scenario di tassi bassi e inflazione sotto controllo, il credito europeo offre opportunità nonostante l’aumento della volatilità legata alle elezioni
Lo scenario degli investimenti finanziari, con uno sguardo particolare alle opportunità nel settore del credito europeo. Ne abbiamo parlato con Flavio Carpenzano, senior portfolio manager fixed income investments di AllianceBernstein con un focus su credito e Europa, che si è soffermato sullo stato di salute delle banche europee e italiane e sulle prospettive del credito obbligazionario del vecchio continente alla luce delle possibili ricadute della scadenza elettorale di maggio.
Quali sono le prospettive del mercato obbligazionario europeo? Siamo in una fase di crescita macroeconomica che a livello globale ed europeo ha superato il picco e inizia a rallentare. In Europa, ad esempio, ci aspettiamo una crescita del 1,4-1,2%, più bassa rispetto al 2% a cui eravamo abituati. Ciò detto, non ci aspettiamo una recessione (analisi condivisa dal consenso dei gestori, ndr) e siamo in uno scenario macroeconomico in cui la crescita resta positiva ma bassa e l’inflazione cresce ma in maniera molto graduale sia in Europa che negli Stati Uniti. Ci troviamo dunque in una situazione in cui il mercato obbligazionario dovrebbe far bene.
Nonostante la diminuzione dei ritmi di crescita? Sì, perché siamo in uno “sweet spot”, un punto ottimale per il mercato obbligazionario con l’economia che non è troppo surriscaldata da una crescita elevata, che porta inflazione, e che allo stesso tempo non si trova a rischio recessione – dinamica, questa, che tipicamente conduce a un aumento dei default. Invece oggi le banche centrali non hanno bisogno di continuare ad aumentare i tassi dal momento che l’inflazione resta bassa, la crescita diminuisce e il mercato dei bond ha ancora bisogno di supporto. Ragion per cui in America ci aspettiamo soltanto due rialzi nella seconda metà dell’anno prossimo, mentre in Europa nessuno – almeno per quest’anno.
Stiamo dunque assistendo, dopo soli pochi mesi dal suo principio, alla fine del quantitative tightening? Le banche centrali hanno realizzato che non si può tornare a una totale normalizzazione perché l’ammontare di debito è così alto che una variazione dei tassi, seppur minima, va a restringere le condizioni finanziarie in maniera molto più incisiva rispetto al passato. Come abbiamo visto, seppur la Fed abbia aumentato i tassi con grande cautela, il sistema è comunque arrivato a risentirne abbastanza rapidamente. Ecco perché non crediamo che ci sarà una totale normalizzazione delle politiche monetarie.
E in Europa? Anche in Europa i tassi resteranno ai livelli attuali per molto tempo. La famosa “normalizzazione” non avverrà. Detto questo, in un’ottica di lungo termine ci aspettiamo comunque pressioni inflazionistiche, ma derivanti dal populismo.
Qual è il meccanismo che lega populismo e inflazione? Il populismo crea incertezze in diverse forme: pensiamo alla guerra commerciale tra Cina e Usa, con i dazi che conducono a un aumento dei prezzi dei beni americani. Oppure, in un’ottica più secolare, pensiamo alla relazione fra governi e banche centrali. Quanto resteranno indipendenti nel futuro, se il populismo continua a crescere? Pensiamo ai reiterati commenti di Trump sulla politica della Fed, o a quelli del governo italiano sulla Bce e sulle autorità di vigilanza. In Italia si sta poi sperimentando con programmi di redistribuzione del reddito: se pensiamo al reddito di cittadinanza, in 5-7 anni può creare pressioni inflazionistiche. Ma anche qualore le banche centrali dovessero perseguire una graduale normalizzazione, sarà lenta e un ritorno dei tassi ai livelli pre-crisi è comunque da escludersi. Questo è il motivo per cui investire oggi in obbligazioni offre un vantaggio, dal momento che il rischio di un rapido aumento dei tassi è basso e i rendimenti sono attraenti – soprattutto quelli legati al credito.
Come e perché investire nel mercato europeo del credito investment grade e high yield? Sia in Europa che negli Stati Uniti il livello dei fallimenti dovrebbe restare relativamente basso perché supportato da una crescita che, seppur moderata, non dovrebbe esaurirsi trasformandosi in recessione. Inoltre, grazie all’aumento degli utili con cui hanno ripagato i debiti, le aziende europee vengono da una fase di riduzione della leva finanziaria. Detto questo, la parola chiave rimane ‘selettività’: a livello settoriale, le aziende di telecomunicazioni hanno generalmente aumentato la leva, mentre i bancari l’hanno ridotta. Un altro aspetto è legato ai fattori tecnici: bisogna tener conto che l’offerta di titoli americani ed europei high yield resterà bassa a fronte di una domanda ancora sostenuta dal momento che il bisogno di rifinanziamento è molto più basso, perché nel passato le società hanno emesso titoli a lunga scadenza e oggi hanno meno bisogno di rifinanziarsi, quindi hai meno offerta.
E in termini di valutazioni? I titoli high yield che rendono il 4-5% in euro restano una buona opportunità di investimento in uno scenario di tassi bassi, evitando però la parte più rischiosa del mercato – tripla C e singola B. Questa sì rimane da sottopesare, in quanto in uno scenario di crescita e utili più bassi tende a soffrire di più rispetto alla parte di alta qualità.
Il settore bancario europeo è uno dei vostri preferiti. Perché? Dal punto di vista dei fondamentali, il problema delle banche europee è legato alla profittabilità. In un scenario di tassi bassi per sempre e crescita anemica, le banche hanno difficoltà a creare margini, soprattutto in un contesto di regolamentazione in termini di aumento requisiti di capitale che è diventato molto più stringente – motivo per cui l’anno scorso l’azionario bancario europeo è sceso del 30-40%. Il problema delle banche di oggi è dunque legato agli utili, ma dal punto di vista della qualità creditizia, gli istituti di credito europei sono capaci di assorbire potenziali shock sistemici in maniera molto più forte rispetto al passato. Quando compri obbligazioni, gli aspetti più importanti sono il capitale, la qualità degli attivi e la liquidità, e sotto questi tre aspetti le banche europee sono in realtà molto solide, perché vengono da dieci anni di riduzione della leva finanziaria e aumento di capitale, con un regolatore europeo che dopo la crisi ha chiesto bilanci più liquidi e la drastica riduzione dello stock di crediti non esigibili. Per questi motivi, le valutazioni dei titoli subordinati Additional Tier 1 – se scelti tra quelli emessi da banche fortemente ricapitalizzate, che hanno un impatto sistemico, con rendimenti che in euro oscillano tra il 4-5% di rendimento – sono molto attraenti.
Cosa pensa delle banche italiane? Qui il discorso è diverso: se pensiamo a capitale, qualità degli attivi e liquidità le banche italiane restano ancora un po’ problematiche. Ma abbiamo assistito a una biforcazione del sistema – il cosiddetto ring-fencing – dove sia Intesa sia Unicredit hanno aumentato il capitale e migliorato la qualità degli asset e sono protette dalla potenziale volatilità legata alle banche più piccole. In Italia assisteremo sempre più a un consolidamento del sistema bancario che gioverà al sistema. Il problema resta però la qualità degli asset, pur in uno scenario di riduzione dei crediti incagliati. Ma la crescita resta un’incognita, e con l’Italia in recessione il rischio è che gli npl aumenteranno e le banche italiane avranno maggiore fabbisogno di capitale. Pur essendo investiti nei due istituti di sistema, oggi sottopesiamo le banche italiane dal momento che le valutazioni non prezzano correttamente questi rischi.
Tra poco più di tre mesi si vota per il rinnovo del parlamento europeo. Il rischio politico rappresenta chiaramente la grande incognita di ogni investimento nel mercato obbligazionario europeo, ma anche questa va contestualizzata. Nel senso che sicuramente le elezioni saranno un trigger di volatilità di tipo transitorio, ma è lecito domandarsi: il risultato avrà la forza di cambiare effettivamente il corso dell’Europa nell’immediato? Credo di no, ma di certo l’impatto delle elezioni resta un fattore di incertezza secolare, di lungo termine.
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