Il 2023 chiuderà con emissioni per circa 25 miliardi di euro. Decisivo l’avvento delle collateralized loan obligation 2.0. Banche, fondi e family office i principali investitori. Ma l’Italia è ancora indietro
Un mercato troppo grande per continuare ad essere ignorato. Il settore europeo delle collateralized loan obligation è raddoppiato negli ultimi dieci anni e ha raggiunto la considerevole cifra di 250 miliardi di dollari. Numeri ancora distanti dai quasi mille miliardi del mercato Usa ma in continua crescita, con emissioni che da gennaio hanno toccato quota 22 miliardi di euro e che dovrebbero chiudere i 12 mesi a 25 miliardi. A fare il punto sono stati esperti e investitori istituzionali intervenuti a “Clo: Idee a confronto”, un appuntamento che ha messo in luce come questi strumenti stiano raccogliendo sempre più l’interesse degli operatori Ue ma restino ancora fuori dai radar degli investitori italiani.
A determinare lo sviluppo messo a segno dal 2013 è stato soprattutto l’avvento dei Clo 2.0. Queste nuove strutture, caratterizzate da requisiti di solidità più stringenti, sono state introdotte dopo la crisi finanziaria del 2008, quando le collateralized loan obligation hanno subito la volatilità dell’intero comparto obbligazionario ma si sono dimostrate resilienti dal punto di vista della solvibilità. I dati storici di S&P mostrano infatti che in Europa, su 1.475 tranche di Clo 1.0 emesse prima dello shock, solo 22 sono andate in default. E nessuna di queste aveva rating tra AAA e A. Se si considerano invece le tranche ‘2.0’ emesse dopo il 2013, non si registra alcun caso di bancarotta.
Oggi il mercato dei Clo nel Vecchio Continente ha recuperato i livelli pre-crisi e cresce a ritmi sostenuti. Anche se resta distante da quello statunitense, che lo supera di quasi quattro volte per dimensioni. Per gli analisti, però, questo gap ha buone probabilità di essere colmato con l’aumentare dell’interesse per il settore europeo da parte degli investitori statunitensi e asiatici.
Migliora anche la liquidità
Fabiana Gambarota, co-fondatrice e managing director di P&G Sgr
Anche sul piano della liquidità, il Vecchio Continente ha mostrato una profonda evoluzione negli ultimi anni. Ne è un esempio la crisi dell’autunno 2022, quando le turbolenze nell’obbligazionario del Regno Unito hanno costretto i fondi pensione britannici a liquidare miliardi di titoli. In questa occasione, nonostante un contesto avverso, gli scambi di Clo non si sono mai fermati e il mercato è riuscito ad assorbire un’offerta con volumi pari a cinque volte la media.
“I prezzi dei Clo in Europa scontano un premio di rendimento rispetto a bond di pari qualità creditizia, che però non è legato all’illiquidità (si tratta infatti di titoli molto liquidi, ndr), ma alla complessità percepita di questi strumenti”, ha spiegato Fabiana Gambarota, co-fondatrice e managing director di P&G Sgr. Per l’esperta, si dovrebbe parlare piuttosto di ‘specificità’, dal momento che si tratta di un’asset class per specialisti. Anche se “caratterizzata al suo interno da una forte trasparenza e dalla disponibilità di tutte le informazioni necessarie per la valutazione, grazie anche alle regole e ai vincoli ancora più stringenti introdotti nell’ultimo decennio”.
Banche, fondi e family office i principali investitori
Attualmente in Europa sono attivi circa 70 Clo manager, che offrono una varietà di stili e approcci di gestione. I rendimenti sono intorno al 5% per le classi AAA e tra l’8-9% per le BBB. Gli investitori, esclusivamente istituzionali e professionali, sono principalmente banche (soprattutto sulle note senior), fondi d’investimento (molto attivi i fondi hedge) e family office. Nel panorama italiano, a differenza di altri Paesi europei, risultano ancora distanti dall’asset class altri istituzionali, come casse di previdenza, fondi pensione e assicurazioni (quest’ultime penalizzate dai requisiti Solvency).
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