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Per il country head, il ciclo economico che si sta aprendo sarà dettato dalle cinque d: deglobalizzazione, decarbonizzazione, demografia, debito e disuguaglianze. Fattori che alimenteranno un’inflazione strutturalmente più elevata. Usa, le urne allontanano la recessione. “Ma il rischio può tornare nel 2025”
Viene semplice, oggi, pensare alla geopolitica come una variabile centrale del discorso economico. Tuttavia, come spiega Enzo Corsello, country head Italy di Allianz Global Investors, non è sempre stato così e non è improprio parlare di un cambio di paradigma. Anche nel mondo del risparmio gestito.

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Quali sono quindi le variabili che le Sgr attenzionano maggiormente nel contesto attuale?
Dall’inizio del nuovo millennio, due sono i più grandi cambiamenti di paradigma: la rivoluzione digitale e la scelta dell’occidente di andare verso la green transition. Questi due trend strutturali si incrociano poi con due eventi storici di portata globale: la pandemia da covid-19 e l’invasione Russa dell’Ucraina, che riporta il tema del rischio geopolitico al centro dell’attenzione, con implicazioni importanti dal punto di vista del processo di deglobalizzazione partito con la crisi economica del 2009 e che aveva subito un’accelerazione ulteriore con l’avvento di Trump alla presidenza degli Stati Uniti.
Questi eventi hanno provocato la dilatazione dei deficit statali e la somministrazione di aiuti di politica fiscale e monetaria, cambiando lo scenario di investimento. Ora gli investitori chiedono un premio per il rischio di sottoscrizione di titoli di Stato che si traduce in rendimenti più alti. Ciò si aggiunge alle spinte che arrivano da un’economia in fase di ipo-globalizzazione, più che deglobalizzazione, questo perché il commercio internazionale continua a crescere ma in modo più lento rispetto al periodo precedente alla grande crisi finanziaria.
Tutto questo contesto come sta impattando sull’inflazione? E in che modo, nello specifico, su tassi e quindi sul comparto obbligazionario?
Riteniamo che ci siano cinque fattori, tutti designati dalla lettera D, che contribuiranno in questo ciclo post-covid e l post-invasione Russa a definire un tasso di inflazione strutturalmente più alto rispetto al ciclo precedente. Questi cinque fattori sono: la deglobalizzazione; la decarbonizzazione; la demografia, che in questo momento peculiare viene vista dal lato dell’offerta di lavoro (una carenza di lavoratori fa aumentare i salari); il debito, che zavorra l’economia minandone fortemente produttività; la lotta alle disuguaglianze, che porta i sindacati a riprendere posizione centrale nelle relazioni industriali con rivendicazioni salariali importanti.
La scelta sempre più diffusa dell’investitore, almeno italiano, di continuare a investire in titoli di Stato, anche in momenti di ottime performance, pensa possa essere sintomo di una mancanza fiducia nei mercati da parte dell’investitore?
C’è sicuramente un problema di educazione finanziaria che il nostro sistema formativo non sviluppa in maniera adeguata alle necessità basilari del risparmiatore. A ciò si aggiunge il fatto che arriviamo da un’epoca di tassi a zero e negativi in cui il rendimento era completamente sparito. Nel 2005 il 25% del risparmio degli italiani era allocato in titoli di stato, questa percentuale è scesa all’8%. Ma se torna al 25% non ci dobbiamo preoccupare, perché sarebbe un movimento fisiologico. Se si torna a una fase di rendimenti obbligazionari elevati, non possiamo non aspettarci che vi sia anche una riallocazione dei portafogli verso questi titoli. Tutto ciò dovrebbe preoccuparci solo nel momento in cui questo processo di aggiustamento dovesse portarci su una quota che eccede quella fisiologica. La pazienza e la fiducia vanno di pari passo con l’educazione, tornando al tema iniziale. La paura in generale, e in questo contesto quella dell’investitore, è legata all’ignoto.
Infine, lato azionario, è il momento di guardare agli Stati Uniti, dato che sono più avanti nel ciclo di politica monetaria e dovrebbero evitare una recessione?
In una prospettiva di brevissimo periodo le potrei rispondere in maniera affermativa. C’è una casistica che supporta l’argomentazione secondo la quale negli anni elettorali negli Usa (che si terranno il prossimo 5 novembre 2024, ndr) l’economia americana è sempre cresciuta o ha in qualche modo tenuto. Seguendo l’indice S&P dalle elezioni di Eisenhower ad oggi, in un orizzonte temporale di settant’anni, raramente in un anno elettorale l’indice ha chiuso in territorio negativo. Questo perché negli anni elettorali le politiche monetarie e fiscali vengono solitamente modulate in modo da scongiurare o ritardare cali significativi della crescita economica e conseguenti rialzi importanti del tasso di disoccupazione o cali economici in prossimità del voto.
Il germe della recessione però è vivo. I primi tre quarter potrebbero comunque essere positivi poiché ancora sostenuti dalla dinamica elettorale, ma a fine 2024 il rischio di contrazione potrebbe ritornare a galla. Bisogna anche tener conto che gli USA hanno uno spread di sovraperformance rispetto al resto del mondo che difficilmente si potrà allargare ancora. Mentre ci sono aree dell’universo investibile, come il Giappone, che viene da quarant’anni di sottoperformance e che potrebbe quindi essere un mercato che nel 2024 continuerà a mostrare una sovraperformance in linea con quell’anno in corso.
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