Guerra Commerciale, la Cina ha più da perdere rispetto agli Usa
L'analisi di Léon Cornelissen, Chief Economist di Robeco. Intanto il Pil cinese rallenta
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Mentre al summit di Helsinki si è registrato un avvicinamento tra due storici antagonisti commerciali, l’Ue e la Cina, resta alta la temperatura delle tensioni tra il Celeste Impero e gli Stati Uniti. La Casa Bianca, che già aveva applicato dazi al 25% su centinaia di prodotti tecnologici cinesi per 34 miliardi di dollari, ha di recente pubblicato un’ulteriore lista di prodotti esportati da Pechino da mettere nel mirino con tariffe al 10% per 200 miliardi, che potrebbero diventare effettive a settembre.
Mentre l’economia cinese ha segnato nel secondo trimestre 2018 un rallentamento, con una crescita dell’1,8% su base congiunturale e del 6,7% su base annua (rispetto alle stime formulate degli economisti di +1,4% e +6,7% rispettivamente), gli esperti si dividono sul grado di fragilità del gigante asiatico di fronte a una guerra commerciale che per ora non accenna a fermarsi.
Dws ricorda che nel 2008 e nel 2009 i decisori cinesi risposero alla grave recessione rafforzando gli stimoli monetari, e hanno replicato anche successivamente, per cui è plausibile aspettarsi che i vertici cinesi non resteranno a guardare. E se il ceo di Blackrock Larry Fink si aspetta che, se si continua di questo passo, la crescita economica e le prospettive delle azioni cinesi ne risentiranno, per Amundi non c’è ragione per allarmarsi eccessivamente: “stimiamo che l’impatto diretto di una tariffa del 10% su prodotti per 200 miliardi di dollari (il 40% dei beni importati dalla Cina, ndr) potrebbe impattare il Pil cinese dello 0,2% circa”, dato che l’export verso gli Stati Uniti rappresenta “circa il 3% del Pil cinese, in termini di valore aggiunto”. Finora, spiegano gli esperti di Amundi, la principale conseguenza a breve termine delle tensioni è stata la correzione del renminbi, su cui hanno però giocato anche altri fattori, come “il generale scenario di avversione al rischio nei mercati emergenti e le prospettive apparentemente forti per l’economia statunitense e un rimbalzo del dollaro”. Ma a lungo termine le conseguenze delle tensioni non dovrebbero essere drammatiche (gli esperti vedono anzi delle opportunità interessanti sull’azionario dopo la correzione), anche se la cautela è d’obbligo: Amundi si aspetta “che le negoziazioni alla fine si concludano in modo razionale”, anche se c’è il rischio concreto che le trattative possano inasprirsi ancora prima di migliorare.
Secondo Chris Iggo, cio obbligazionario di Axa Investment Managers, “le controversie commerciali con gli Stati Uniti arrivano in un brutto momento per la Cina, che si trova nel bel mezzo di un processo di deleveraging interno”. Il governo sta cercando di contenere l’indebitamento, spinto da speculazioni immobiliari e da un settore bancario ombra scarsamente regolamentato, attraverso un downgrade del settore pubblico e l’inasprimento delle condizioni di credito, nonché attraverso procedure fallimentari più trasparenti ed efficaci che consentirebbero alle imprese di gestire le insolvenze dei prestiti e delle obbligazioni. Per Iggo si tratta di “un compito immane che certamente comporta dei rischi”.
Maurizio Novelli, gestore del fondo Lemanik Global Strategy, osserva che con i dazi gli Stati Uniti vogliono spingere la Cina a stimolare i consumi interni per aumentare l’import dagli Stati Uniti. “La Cina ha però un debito interno molto elevato e non è nella condizione di stimolare più di tanto la domanda interna, che dipende in prevalenza da investimenti pubblici e non può crescere più di quanto stia facendo ora senza far salire ulteriormente il debito. Se la Cina volesse stimolare i consumi privati avrebbe bisogno di ridurre il suo risparmio interno, che attualmente finanzia una parte importante del debito americano”, spiega Novelli, sottolineando che il piano di Trump potrebbe quindi essere un boomerang, perché “rischia di interrompere i flussi di capitale e risparmio cinese verso l’indebitato sistema Usa”. In questa fase, Pechino sembra quindi aver meno da perdere dagli Stati Uniti da questa guerra commerciale: per gli effetti limitati attesi dei dazi sul Pil, per il maggiore controllo sull’economia dei vertici cinesi rispetto a quelli americani, e per il meccanismo per cui, se da una parte è vero che vende molti beni agli americani, dall’altra parte compra dagli stessi molto debito. E va considerato anche che non ci sono solo i dazi di Washington da tenere presente, ma anche i controdazi di Pechino, che rischiano di fare molto male alle aziende Usa che esportano intensamente verso la Cina. La speranza, anche tra gli addetti ai lavori, è che alla fine in questa partita, che rischia di travolgere anche Paesi terzi, prevalga il realismo.