Donne di denari
Le strategie vincenti per gestire i tuoi soldi
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Laura Nateri, head of Italy in Lazard; Cinzia Tagliabue, CEO di Amundi; Stefania Paolo, country head di BNY Mellon; Manuela d’Onofrio head of group investment and products di Unicredit; Paola Pietrafesa, amministratore delegato e direttore generale di Allianz Bank Faed Elena Goitini, responsabile wealth management BnP Paribas. Sono alcune delle Signore italiane del risparmio gestito. Pochissime quelle in posizione di vertice e poche anche quelle distribuite nelle strutture. “Al di là di queste figure iconiche, le donne in posizione verticistiche si collocano più che altro nei ruoli di sales, e non superano il 20% del totale – dice a Focus Risparmio Maria Buttiglieri, consulente di Russell Reynolds Associates, società internazionale di consulenza manageriale ed executive search – Ma rispetto a venti anni, quando le donne nel risparmio gestito erano assenti, si tratta di un importante passo in avanti”.
Se il dato italiano rilevato da Russell Reynolds sembra basso, a guadare i numeri globali, il nostro Paese appare addirittura progressista sulla questione femminile. La legislazione domestica è d’altronde molto evoluta e alla nota legge sulle quote rose che ha portato le donne in posizioni dirigenziali nelle società quotate dal 7 al 36% dal 2011 al 2019, si è aggiunto di recente il regolamento di Banca d’Italia che obbliga gli organi sociali delle Sgr a diversificarsi per competenze, esperienze, età e genere. Assogestioni ha pubblicato le linee guida alle associate in tema di diversità e inclusione nelle Sgr, Sicav e Sicaf, che da documento di sensibilizzazione diventano uno strumento di ausilio per l’adempimento dei nuovi obblighi normativi.
Ma anche in campo operativo, guadando ai gestori, ci sarebbe molto da fare. Secondo il quarto Alpha Female di Citywire, solo il 10,8% dei fondi coperti dal database era composto da donne a fine 2019 (nel 2016 la quota era del 10,6%, praticamente invariata). La percentuale aumenta se si guarda ai gruppi con più di cento manager (13%) con casi di Sgr come Jp Morgan Am che ha il 21% di gestori donne. La fascia che ha tra 50 e 100 manager invece vede in cima alla classifica Eurizon Capital (34% rispetto a una media dell’11%). Tra i 20 e i 50 manager spicca la francese OFI (35% versus l’11% di media).
La situazione non cambia se si allarga lo sguardo ai consulenti finanziari: un’indagine condotta da CFA Institute “Gender Diversity in Investment Management”rileva che è donna meno di un quinto degli associati a livello globale e solo il 32% dei candidati CFA. In Italia solo il 16% degli associati di Cfa è donna. Ed è sorprendente che la diversity sia ancora così sottovalutata. Un’altra indagine del CFA Institute “Driving change: Diversity & Inclusion in Investment Management” misura che per l’83% dei professionisti della finanza negli Stati Uniti, la diversità di genere è importante; ben oltre la metà (55%) ritiene che la diversità nel team di lavoro generi performance migliori e il 28% afferma che preferisce optare per un’organizzazione che stimoli la scelta della gender diversity.
Secondo uno studio di Consob del 2018 le aziende quotate con almeno due donne su dieci nel consiglio di amministrazione ottengono effetti positivi sulle performance aziendali e sul ritorno per gli azionisti. Nel settore dell’asset management, i team misti hanno prodotto guadagni per i clienti del 4,3% in più in tre anni rispetto ai team composti da sole donne o da soli uomini.
Ma allora perché non se ne esce e l’inclusione femminile nella finanza, non solo a livello di vertice ma a tutti i livelli, appare così indietro? Una spiegazione potrebbe essere quella della Harvard Business Review che (in riferimento al mondo del VC) descrive un gender bias di genere che ostacola l’allocazione delle risorse alle migliori startup e condiziona gli investitori, a seconda del sesso di chi presenta il pitch. Il 90% degli investitori, ancora una volta, sono maschi, ma il condizionamento sembra avvenire indipendentemente dal genere di chi giudica e non è un caso che solo il 3% dei finanziamenti globali vadano a startup fondati da sole donne. Lo stesso pitch presentato da un uomo ottiene sistematicamente risultati inferiori se presentato da una donna, inoltre alle donne vengono fatte domande più sui rischi connessi al nuovo business e agli uomini sulle prospettive. Il pregiudizio persiste: le donne vengono giudicate sui risultati, gli uomini sulle prospettive. E finché il problema non sarà interiorizzato a livello culturale, ogni tentativo di cambiare le cose risulterà vano.