“Il pezzo mancante del puzzle è l’educazione finanziaria: necessario sensibilizzare consulenti e risparmiatori sul tema della liquidità”. Parla il responsabile globale della distribuzione istituzionale e wholesale della casa danese
Christophe Girondel
In un mondo in cui la gestione attiva è messa sotto pressione dagli Etf e dagli strumenti che replicano indici e panieri di titoli quotati, gli investimenti alternativi – venture capital, private equity, private debt, infrastrutture, real estate – possono giustificare commissioni di gestione più elevate. Non è possibile, infatti, investire con strumenti passivi e indicizzati in titoli non quotati, scambiati sui mercati privati.
Attenzione, però: gli investimenti alternativi in economia reale non offrono liquidità giornaliera e sono più delicati da maneggiare in portafogli retail rispetto ai titoli quotati, come insegna il caso dell’ex star manager britannico Neil Woodford.
“C’è un problema di educazione finanziaria che coinvolge molti attori e ci vorrà molto tempo per giungere a un livello di conoscenza adeguato, tanto dei risparmiatori quanto dei consulenti” ammonisce Christophe Girondel, responsabile globale della distribuzione istituzionale e wholesale di Nordea, che in conversazione con FocusRisparmio esalta le potenzialità dei mercati privati pur tracciando una linea di demarcazione netta in termini di target market.
L’investimento in mercati privati ed economia reale può ridare linfa agli asset manager?
Un buon manager con uno stile di gestione attivo è sempre in grado di vendere i propri prodotti. D’altro canto, è vero che gli strumenti passivi stanno mettendo in discussione qualche ramo dell’asset management, soprattutto quello in cui nel tempo non si è generato alfa, e quindi si tende a privilegiare una fonte di beta più economica. Tuttavia, c’è spazio per generare alfa: noi ad esempio lavoriamo molto sui covered bond, un’asset class per cui le persone sono disposte a pagare.
L’andamento del private equity e dei private market è una nota positiva per la gestione patrimoniale, ma non è realmente legato alle commissioni, bensì piuttosto al fatto che i fondi pensione e molti investitori istituzionali sono alla ricerca di questa soluzione in un contesto di basso rendimento, perché credono di poter trovare nel private debt un rendimento non riscontrabile nel normale mercato del reddito fisso.
Quali sono oggi le opportunità e le sfide per gli investitori che si avvicinano ai mercati privati e agli asset alternativi?
Penso che sia molto facile da proporre alla clientela istituzionale, mentre per i clienti retail è molto più difficile. Questo perché un buon prodotto alternativo comporta un periodo obbligatorio di lock-up dei capitali, per cui gli investitori non possono scegliere di accedere e uscire dal fondo in maniera del tutto agevole. E per molti clienti si tratta di una clausola impegnativa perché non sono abituati ad essere vincolati per 10 anni. Questo è l’aspetto più complicato.
Gli Eltif – fondi chiusi dedicati alle Pmi e con un orizzonte temporale di lungo termine – sono uno dei modi in cui l’industria sta cercando di promuovere i mercati privati.
Gli Eltif stabiliscono un quadro normativo che consente di proporre questo tipo di prodotto alternativo agli investitori retail, a cui non è possibile offrire un normale prodotto di debito privato dal momento che è necessario essere un investitore professionale per poterlo acquistare. Tuttavia, ciò non risolve il problema della liquidità: se si acquista un fondo di private equity, esso è per sua natura illiquido e il capitale rimane immobilizzato per cinque anni.
Quindi l’idea che gli Eltif possano colmare il divario tra economia reale e risparmi delle famiglie è ottimistica?
Gli Eltif sono un pezzo del puzzle, aiutano di certo ma è necessario sensibilizzare i clienti retail o bancari sulla questione della liquidità. Non credo che inserire prodotti illiquidi nel portafoglio dei clienti retail sia una buona idea perché se sono un cliente retail e ho bisogno dei miei soldi domani, non posso essere vincolato per 10 anni.
D’altra parte, se questi investimenti rientrano nei risparmi che so che non userò per i prossimi 10 anni, allora può essere una buona idea investire nei private market. Ma per farlo, molti distributori hanno bisogno di educare le persone e far capire loro quali sono i vantaggi di avere un prodotto come questo e perché immobilizzare il denaro non deve essere visto come un problema. C’è un aspetto psicologico in tutto ciò, perché anche se non hai bisogno di soldi, ti senti al sicuro se sai che potenzialmente puoi riaverli domani, anche se poi finisci per non toccarli per cinque anni.
Insomma uno dei pezzi mancanti del puzzle è l’educazione finanziaria.
Sì, ma ciò che è veramente importante è che provider e distributori non devono fingere sul tema della liquidità. A volte sono un po’ preoccupato perché vedo persone che fanno proprio questo. Ciò che è illiquido è illiquido. Se uno strumento di investimento ha una liquidabilità-obiettivo di sette anni, non si dovrebbe trattare quel prodotto dando l’impressione che sia riscattabile in due o tre anni. Questo non è corretto nei confronti del cliente.
Siete in procinto di lanciare prodotti alternativi specifici?
Stiamo lavorando su prodotti del private market, stiamo raccogliendo investimenti per un prodotto di private equity che rientra negli investimenti a impatto Esg, che riteniamo essere la pietra angolare delle nostre strategie.
In questo momento stiamo raccogliendo capitali in tutta Europa, rivolgendoci agli investitori istituzionali, dato che stiamo parlando di prodotti con clausole di lock-up a 10 anni. Gli investitori istituzionali, piuttosto che i retail, sono quelli più interessati. In Italia, ad esempio ci occupiamo soprattutto del segmento assicurativo, ma anche delle Casse di previdenza e dei fondi pensione.
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