Ciocca alle banche: “Innovazione e sicurezza per battere le Bigtech”
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Fermare la corsa al ribasso della tassazione e favorire l’equità. Con questo duplice obiettivo i ministri delle Finanze del G7 hanno raggiunto un accordo “sul principio di una aliquota globale minima del 15% per la tassazione delle grandi imprese, applicata Paese per Paese”. Un’intesa immediatamente definita storica, anche se appena nata e con parecchia strada davanti prima di diventare operativa, che impatterà sulle grandi aziende, a partire dalle big tech che l’hanno ispirata, ma non solo.
Per il Tesoro britannico, padrone di casa del vertice teatro dell’accordo, si tratta di una “stretta sull’elusione fiscale” che farà pagare “la giusta quota” ai giganti tecnologici. Le maggiori imprese globali “con margini di profitto di almeno il 10%, vedranno il 20% di tutti gli utili al di sopra di tale soglia riallocato e tassato nei Paesi dove effettuano vendite”, ha chiarito il ministro delle Finanze del Regno Unito, Rishi Sunak.
“Crediamo che l’accordo sia un segnale importante per porre fine all’evasione fiscale globale, poiché penalizza i paradisi fiscali, e quindi riduce la disuguaglianza globale”, spiega il team strategie di credito globale di Algebris guidato da Alberto Gallo, gestore del fondo Algebris Global Credit Opportunities Fund.
L’impegno riguarda appunto l’adozione di un’aliquota globale minima del 15% come corporate tax, l’imposta sui profitti d’impresa, che secondo Sunak potrà aiutare a combattere i “paradisi fiscali”, e dunque la corsa al ribasso della tassazione da parte di alcuni Stati nella speranza di attirare le aziende, e anche ad affrontare la questione della tassazione dei giganti digitali.
“Con la proposta di un’aliquota minima globale del 15% sulle aziende e gli aumenti proposti dall’amministrazione Biden, il 13% di tasse effettive sulle imprese pagate dalla metà del 2020 può rappresentare il primo cambio di direzione per quanto riguarda la pressione fiscale sulle imprese sin dalle riforme di Reagan degli anni ’80”, commenta Norman Villamin, CIO Wealth Management di Union Bancaire Privée (UBP).
“Con il calo delle aliquote fiscali effettive sulle imprese (dal 31% al 13% attuale) pari ad oltre il 30% della crescita dei profitti delle aziende USA dall’inizio del secolo – sostiene l’esperto –, le imprese dovranno fare sempre più affidamento sull’espansione dei margini e sulla crescita dei ricavi anche solo per mantenere il recente ritmo di crescita dei profitti”.
Il coro di approvazione politica è stato quasi unanime. Per il premier italiano, Mario Draghi, si tratta di “un passo storico verso una maggiore equità e giustizia sociale per i cittadini”, mentre il commissario Ue, Paolo Gentiloni, ha sottolineato che con questo accordo si affermano due principi: “Primo che le tasse si raccolgono dove i profitti vengono realizzati e non dove ci sono i quartieri generali delle multinazionali e secondo che tra Paesi non può esserci una concorrenza sleale e quindi ci vuole una tassazione minima che sia di base per tutti”.
Anche per il segretario del Tesoro Usa, Janet Yellen, l’accordo è un “impegno senza precedenti che metterà fine alla corsa al ribasso nella tassazione aziendale, assicurando equità per i lavoratori negli Stati Uniti e in tutto il mondo”, mentre l’Ocse è sceso in difesa proprio degli Stati Uniti, sottolineando per bocca del suo segretario generale, Mathias Cormann, come l’intesa non favorisca affatto Washington. “Scoprirete che c’è un certo numero di grandi multinazionali statunitensi che finiranno per pagare più tasse negli altri Paesi del mondo, dove magari al momento ciò non avviene”, ha detto ai detrattori dell’accordo.
Detrattori che, per la verità, sono piuttosto numerosi, e la cui tesi predominante è quella di un accordo burla, buono per essere venduto come epocale, ma nei fatti “inadeguato” perché troppo clemente con le grandi aziende. Ora però questa proposta di corporate tax dovrebbe arrivare al tavolo del G20 di luglio (o più probabilmente di ottobre, come scritto dal New York Times), ma in ogni caso ci vorranno anni prima che diventi realtà.
Tempi lunghi anche per il fatto che c’è una serie di Paesi pronta a frenare. Primo tra tutti l’Irlanda, il cui ministro delle Finanze, Paschal Donohoe, ha già annunciato la sua contrarietà, affermando che porrà il caso della “legittima concorrenza fiscale”. In un tweet, Donohe aveva anche affermato che qualsiasi accordo internazionale su come le società sono tassate dovrà necessariamente soddisfare le esigenze dei “piccoli e grandi paesi, sviluppati e in via di sviluppo”, ricordando che i Paesi dell’Ocse sono 139.
“[Il provvedimento] dovrebbe alzare le aliquote d’imposta sulle società a livello globale, ponendo fine ad una gara al ribasso tra Paesi che cercavano di attirare le imprese globali”, aggiungono gli esperti di Algebris, rimarcando che i dettagli chiave come la portata e la base imponibile devono ancora essere determinati. “Dal nostro punto di vista l’accordo è un primo segno di rinnovata cooperazione internazionale con gli Stati Uniti”.
Intanto, nella prima seduta post G7, i titoli dei giganti del settore tech statunitense scambiano tuti in leggero ribasso nel premarket. Facebook, Amazon, Apple, Microsoft e di Alphabet, capogruppo di Google, cedono tra lo 0,3% e lo 0,6%.
Le proposte del G7 puntano proprio alle società del settore tech che vendono servizi da remoto e che classificano buona parte dei loro profitti come derivanti da proprietà intellettuale in giurisdizioni a bassa tassazione. E per ora le società in questione fanno buon viso a cattivo gioco. Facebook, ad esempio, accoglie con favore l’impegno del G7 nonostante il gigante dei social media rischi di pagare di più, secondo quanto afferma in un tweet il vicepresidente per gli Affari globali del colosso web Nick Clegg. “Accogliamo con favore gli importanti progressi”, “questo potrebbe significare che Facebook pagherà più tasse e in luoghi diversi”, si legge nel tweet.
Sulla stessa linea Amazon Italia. “Sono molto contenta degli sviluppi che ci sono stati nell’ultimo G7 dei ministri finanziari, perché in realtà quanto deciso, cioè un approccio uniforme alla tassazione delle aziende multinazionali, è quello che noi abbiamo cercato di portare avanti da molto tempo. Siamo molto favorevoli a un approccio condiviso. Chiaramente poi dovremo vedere i dettagli perché ci sarà il G20 a Venezia a luglio, però la direzione è assolutamente quella giusta”, ha detto Mariangela Marseglia, country manager Italia e Spagna del colosso di Bezos.
“Con venti favorevoli in ambito fiscale e monetario, è probabile che in futuro assisteremo a una ripresa ciclica nella crescita degli utili e dei margini aziendali”, ragione Villamin di UBP, concludendo che “con la rivoluzione dell’innovazione che si sposta rapidamente da un focus ristretto allo spazio digitale all’accelerazione degli investimenti verso l’industria green, le supply chain che si accorciano e la crescente opposizione all’outsourcing sul fronte politico interno, non vediamo all’orizzonte dei driver per un nuovo ciclo di espansione dei margini, suggerendo che in futuro lo stock picking diventerà sempre più prezioso”.
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