“Non sia solo l’Europa di banche e mercati”: il capo economista della prima banca italiana auspica un rinascimento europeo fondato sugli ideali del New Green Deal ed esorta le imprese ad essere più coraggiose
Per far ripartire l’economia italiana servono investimenti da parte delle aziende, solo così si attiverebbe un nuovo ciclo di crescita. Perché le imprese tornino ad investire, però, sono necessari stabilità politica e una maggiore efficienza della pubblica amministrazione, ancora oggi troppo lenta e poco orientata al sistema produttivo. Questo il pensiero di Gregorio De Felice, chief economist di Intesa Sanpaolo, sollecitato sui temi della realtà industriale italiana da FocusRisparmio. Di seguito l’intervista integrale
Nel 2019 la produzione industriale italiana ha mostrato una diminuzione rispetto all’anno precedente, la prima dal 2014. Qual è la sua lettura del dato?
È un dato non incoraggiante che completa un anno complicato per l’industria italiana. Dall’altro lato, però, è in linea con quelli di Germania e Francia, anch’essi negativi. Sicuramente sull’attività del quarto trimestre ha pesato ancora il rallentamento del commercio internazionale e soprattutto quello che sta accadendo in Germania, dove è in atto un processo di riconversione produttiva che riguarda il settore dell’automobile. Poi ritengo che ci sia stato un tema legato alle scorte delle aziende, che nel 2019 sono diminuite proprio a causa di questo contesto incerto.
Al di là dei fattori internazionali, di cosa avrebbe bisogno il tessuto industriale italiano per un rilancio?
Il ciclo economico italiano risente di una debolezza degli investimenti pubblici e privati. I consumi stanno andando molto meglio grazie alla crescita del reddito disponibile delle famiglie, previsto in aumento quest’anno di circa l’uno per cento. Le imprese rimangono molto caute nei loro investimenti così come, fra l’altro, mostra l’analisi delle componenti della domanda di credito.
Se poi volessimo analizzare quale sia il potenziale di crescita dell’economia in futuro dovremmo guardare alla dinamica della produttività, il cui andamento è praticamente piatto negli ultimi 20 anni. C’è però da considerare le diverse componenti settoriali: se scomponiamo per macrosettore osserviamo dinamiche completamente differenti. Il manifatturiero è in crescita – anche se meno rispetto alla Germania– mentre la produttività della pubblica amministrazione è in picchiata e quella delle costruzioni è negativa.
Quali sono le cause? E come sarebbe possibile rimediare?
Il settore manifatturiero è esposto alle pressioni della concorrenza internazionale. La pubblica amministrazione no. Se devo richiedere un’autorizzazione per costruire un capannone non posso rivolgermi alla pubblica amministrazione austriaca o a quella francese. La bassa efficacia della nostra amministrazione pubblica rappresenta un grandissimo vincolo alla nostra crescita. E’ quindi in quella direzione, a livello centrale e sui territori, che andrebbero concentrati gli sforzi. Un’economia moderna come quella italiana ha bisogno di una vera e propria rivoluzione in questo campo.
Alcuni accusano le imprese italiane di essere troppo piccole. Il nanismo imprenditoriale è davvero un problema?
Questo è stato un grande problema soprattutto in passato. Oggi con la digitalizzazione c’è maggiore possibilità di creare delle filiere produttive fatte da tante piccole e medie imprese quindi la caratteristica storica della dimensione, dal mio punto di vista, è meno rilevante di quanto fosse anni fa. Da questo punto di vista, la digitalizzazione è molto democratica, nel senso che non è un vantaggio solo per le grandi imprese ma lo è anche per le piccole. Quindi mi sembra che il problema della dimensione sia diventato negli ultimi anni meno rilevante. Poi è chiaro che l’impresa più grande ha la possibilità di dedicare una maggior quota del proprio bilancio in investimenti in ricerca e sviluppo rispetto all’impresa di piccole dimensioni, però obiettivamente in Italia abbiamo anche tante piccole e piccolissime imprese che sono delle eccellenze, come dimostrano le offerte che arrivano dagli Stati Uniti, dalla Germania e dalla Cina.
Debito pubblico: quanto è concreto il rischio di un downgrade da parte delle agenzie di rating?
Oggi paghiamo uno spread che è più alto rispetto alle valutazioni che ci sono assegnate dalle agenzie di rating internazionali. Il nostro spread viaggia poco sotto i 130 punti base con un rating ancora tripla B. Quindi, delle due l’una: o abbiamo un rating migliore rispetto a quello implicito nel prezzo che ci dà il mercato, oppure il nostro spread è più alto rispetto a dove dovrebbe essere. In altri termini dovremmo avere uno spread intorno a 110 pb.
Quindi c’è la possibilità che lo spread scenda? A quali condizioni?
C’è la possibilità di una riduzione dello spread, principalmente a due condizioni: stabilità politica e ripartenza del ciclo degli investimenti. Se ripartissero gli investimenti riparte anche il ciclo economico e quindi potremmo avere maggiore crescita economica. Queste condizioni allontanerebbero il rischio di un downgrade da parte delle agenzie.
Lagarde ha avviato una revisione strategica delle politiche della Bce, ma non ha escluso che i tassi d’interesse possano rimanere ancora negativi per un lungo periodo di tempo. Ci dobbiamo abituare a questo scenario che è ormai irreversibile oppure no?
Abbiamo tassi negativi dal giugno del 2014: quasi 6 anni di politiche monetarie non convenzionali non hanno portato la Bce a raggiungere l’obiettivo dell’inflazione vicina al 2%. Ci sono alcuni studi della Banca centrale europea che esaminano l’efficacia delle tre principali misure non convenzionali ossia il programma degli acquisti, le Tltro e i tassi di interesse negativi. Questi studi dimostrano che di questi tre strumenti, quello dei tassi negativi è probabilmente il meno efficace. Di conseguenza, non vedo spazi per ulteriori riduzioni dei tassi in caso di peggioramento del ciclo economico. . Bisognerà semmai cominciare a pensare di riportarli nella normalità, cioè a tendere verso lo zero.
Come si rilancia l’economia dell’Eurozona?
Il vero modo per raggiungere gli obiettivi desiderati più che dalla politica monetaria dovrebbe arrivare dalla politica fiscale. La politica monetaria ha fatto quello che doveva fare. Non credo che abbia ulteriori spazi. C’è un programma di acquisti e c’è un programma di rifinanziamento delle banche. Ora tocca alla politica fiscale europea fare da stabilizzatore anticiclico. Il compito spetta in primis a quei Paesi che hanno un surplus di bilancio significativo, come la Germania.
Perché la Germania non lo fa?
In Germania esiste un vincolo costituzionale che in tedesco si chiama Schwarz Null (vincolo del pareggio di bilancio). Sono in atto delle discussioni sulla modifica di questo punto della costituzione, ma con enormi resistenze.
Però c’è bisogno di maggior integrazione e coordinamento fra gli Stati dell’Unione.
C’è il tema di essere più ambiziosi rispetto ad oggi. Perché dovremmo investire di più? Perché ad esempio nello scacchiere internazionale l’Europa conta poco. Non abbiamo una grande internet company, non abbiamo una società di telecomunicazioni che si confronti con i colossi internazionali, ecc.. Servono regole meno rigide. Il nuovo piano del Green Deal è perfetto per rilanciare l’idea di unione e per riavvicinare l’Europa ai cittadini.
In Europa abbiamo un problema legato alla distanza tra i cittadini e le istituzioni: non si può costruire l’Europa solo con l’unione bancaria o con il mercato dei capitali. Ci vuole una idea aggregante che avvicini il cittadino, in particolare le classi più giovani, alle istituzioni. I temi ambientali, l’obiettivo di un’Europa più pulita e un’Europa più sostenibile sono la leva giusta per rilanciare il concetto stesso di Unione. E allo stesso tempo si può stimolare la crescita e rendere l’Europa più competitiva. Prima o poi a domandare prodotti che consentano di inquinare di meno e che consentano un ambiente e un’economia più sostenibile ci arriveranno anche in Cina, in India o negli Stati Uniti. Se noi europei diventiamo prima degli altri leader in questi ambiti avremo un vantaggio competitivo importante. Senza contare che con una maggiore crescita la tassazione avrebbe spazi per essere ridotta. Quindi si aprirebbe un circolo virtuoso anche da questo punto di vista.
Secondo lei quali saranno gli effetti del Coronavirus sulla crescita globale?
Difficile dirlo con precisione senza conoscere i dati reali e i possibili rimedi contro il virus. Dal punto di vista puramente economico, però, posso dire che questo evento negativo può essere in grado di ritardare il rimbalzo ciclico del primo trimestre e farlo slittare al secondo trimestre. Prima della diffusione del virus molti indicatori anticipatori in Asia davano segnali positivi di stabilizzazione e di rafforzamento del ciclo. Il coronavirus certamente influenzerà i consumi e il turismo dei cinesi in misura abbastanza importante. Noi pensiamo che la crescita dei consumi nel primo trimestre possa essere di tre punti inferiori rispetto al quarto.
Se, come tutti auspichiamo, la pandemia verrà in qualche modo circoscritta nell’arco del mese di febbraio o al più tardi all’inizio di marzo e poi si riprenderà l’attività, potrà succedere come con la Sars nel 2003, cioè un forte effetto negativo di breve ma già nei trimestri successivi un recupero. La nostra stima è di un effetto sulla crescita del Pil cinese di più bassa di circa 0,5 0,6% con un impatto sull’economia globale dello 0,2% per quest’anno.
Con 4,4 miliardi di patrimonio e circa 1,5 mld detenuti sui c/c, gli italiani si confermano un popolo di risparmiatori ma ancora poco propensi all’investimento. Qual è la sua lettura del dato?
Io credo che siano probabilmente eccessivamente prudenti nell’allocazione del risparmio: troppa liquidità e pochi investimenti nel mercato azionario. C’è una distanza fortissima rispetto a quanto succede in Inghilterra e negli Stati Uniti, dove ad esempio lo stock di ricchezza delle famiglie sta crescendo molto più rapidamente che da noi per un forte effetto di rivalutazione dei mercati borsistici.
Questo è un tradizionale gap del risparmiatore italiano che però sta cambiando. In Italia la parte di ricchezza affidata agli investitori istituzionali rimane tuttavia ancora inferiore di circa 10 punti, sotto la media dell’area dell’euro e di 30 punti rispetto al Regno Unito. Una causa può essere ricercata nel ruolo più rilevante della previdenza pubblica nel nostro Paese.
Possibili soluzioni?
Bisogna insistere con l’educazione finanziaria cioè far capire che il “fai da te” non è premiante. Le famiglie si fermano davanti all’idea di dover pagare una commissione per un servizio, ma in un mondo così complicato in cui posso investire in migliaia di diverse attività finanziarie italiane e internazionali, affidarsi a un bravo gestore è la cosa migliore.
Qual è il dato aggregato sule imprese italiane che la fa stare più sereno? E quello che la fa preoccupare di più?
Il punto di forza è che si sono rafforzate dal punto di vista del capitale e sono più patrimonializzate con minore leva finanziaria rispetto a qualche anno fa. Hanno individuato delle strategie vincenti puntando di più sull’estero. Il 48% di quello che viene prodotto in Italia viene venduto all’estero. Un punto di debolezza è quello di essere in questo periodo molto caute dal punto di vista degli investimenti nonostante condizioni finanziarie estremamente vantaggiose e probabilmente irripetibili. Con il costo del credito così basso sarebbe il momento di gettare il cuore oltre l’ostacolo e di espandersi di più. O attraverso una crescita organica oppure scegliendo di procedere con operazioni di acquisizione e di allargamento delle proprie capacità.
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