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Equity quotato e dati diversi dai bilanci di sostenibilità sono alla base delle strategie di Impact SGR. Un approccio innovativo che promette di aprire nuovi orizzonti per il settore, specie in Italia. Il racconto del presidente e co-fondatore Fausto Artoni
Dal privato al pubblico senza soluzione di continuità. In una fase storica che vede l’universo Esg sovraccarico di sigle ed etichette non sempre sufficientemente efficaci, c’è chi ha pensato di tracciare questa parabola per dare maggiore concretezza alle tematiche della sostenibilità. Si tratta di Fausto Artoni, Stefano Mach e Gherardo Spinola, tre ex portfolio manager di Azimut che ormai cinque anni fa hanno unito le forze per dare vita strategie di impact investing focalizzate sull’azionario quotato anziché sui mercati privati. Uno sforzo da cui è nata Impact SGR, società di gestione con 3,5 miliardi di euro di masse che utilizza input informativi del tutto particolari e punta anche sull’equity italiano come potenziale volano di redditività e corporate social responsability. Artoni, che è presidente della compagnia, ha raccontato a FocusRisparmio le catteristiche di questa visione e la nuova frontiera del settore.
Fausto Artoni, presidente di Impact SGR
Investimenti a impatto, ma fuori dal contesto private. Quali sono le origini di questa scelta singolare e come si sposa con il quadro attuale?
Siamo nati nel 2018 con l’obiettivo di sviluppare strategie impact nell’universo quotato. Un’iniziativa figlia certamente dell’expertise dei tre fondatori, tutti ex portfolio manager Azimut, ma che si radica anche su una convinzione: le società pubbliche sono più attive a livello di innovazione e di presenza sui mercati e quindi riescono a garantire maggiori ritorni, prima di tutto nella remunerazione economica. C’è poi anche un tema etico, perchè siamo convinti che l’impresa debba svolgere anche un ruolo sociale e attento ai problemi legati alla sostenibilità ambientale. Se è vero che l’impact investing nasce nel settore privato, non si può negare come oggi sia il mondo listed a offrire le maggiori opportunità di incidere sulle tematiche di sostenibilità. E per una ragione molto semplice: è lì che risiedono i grandi capitali e le risorse per generare impatti positivi. Senza contare che la pandemia ha dato ulteriore stimolo alle aggregazioni, da cui una necessità crescente di dialogare con grandi aziende per chi voglia investire in chiave Esg. In questo senso, pensiamo sia sempre più importante che le aziende siano attente non solo agli azionisti (shareholders) ma anche agli stakeholders: dai dipendenti ai fornitori fino al territorio.
Nel 2018, però, il quadro economico non era quello attuale. Come sta rispondendo il vostro approccio oggi?
Il contesto macroeconomico di oggi si presenta profondamente cambiato, con il costo del denaro a livelli molto più elevati e un’inflazione come non si vedeva da decenni, ma noi non smettiamo di credere nella validità della nostra visione. È proprio in contesti di grande incertezza, così come di grande complessità normativa, che cresce l’interesse del consumatore per prodotti finanziari dalla massima trasparenza. A livello di portafoglio, si è certamente posto (e si pone tuttora) un tema di allocazione tattica per far fronte alla volatilità e, sotto questo profilo, ci stiamo muovendo in una direzione chiara: anche se la maggior parte dei nostri clienti è concentrata sull’equity, in particolare global equity, promuoviamo un approccio bilanciato. Intravediamo infatti all’orizzonte una possibile riduzione dei tassi e quindi una performance positiva del mercato obbligazionario.
Ci sono aree geografiche o settori merceologici in cui intravede maggiori opportunità?
Ci sono le aziende attive nella generazione e trasmissione di energia da fonti rinnovabili e quelle il cui modello di business ha al centro la salute. Un settore che promette di dare soddisfazioni a medio termine è quello delle infrastrutture: in Occidente il comparto si prepara infatti a una stagione di forte crescita in scia a programmi di sviluppo varati da Unione Europea e Stati Uniti. Ed è proprio sugli Usa che vanno puntati i riflettori in un’analisi su base geografica, perché l’Inflation reduction Act (Ira) ha il potenziale per innescare una trasformazione radicale dell’apparato energetico, logistico e infrastrutturale del Paese.
Discorso a parte merita la tecnologia. Il tema è infatti quello di capire quale sia il suo reale apporto in termini di sostenibilità. Noi tendiamo a escludere le società in cui la valutazione di impatto negativo supera i fattori di positività. In alcuni casi, come ad esempio Amazon, pensiamo che l’aspetto “disruptive” sia troppo elevato rispetto ai fattori positivi. Per altre aziende leader del settore riusciamo ad avere valutazioni di impatto netto positivo. A queste misurazioni dobbiamo poi aggiungere un’analisi di tipo fondamentale ed è evidente che oggi i multipli espressi dal mercato siano ai massimi storici rispetto ai settori più tradizionali.
Ha parlato di complessità normativa. Come valuta il dibattito sugli investimenti Esg in corso negli Usa? E l’ondata di riclassificazione dei fondi sostenibili negli ultimi mesi?
La polemica sollevata dai repubblicani pare strumentale. Specie se si considera che due terzi dei progetti approvati nell’ambito dell’Ira sono sfruttati proprio da Stati guidati da loro esponenti: un esempio su tutti è il Texas, secondo produttore di energia elettrica eolica e solare dopo la California. Quanto invece alla dimensione normativa, serve un lavoro di semplificazione e omogeneizzazione che aiuti l’industria a normalizzare i dati. Anche le autorità europee se ne stanno rendendo conto ed è per questo che, a mio avviso, vedremo a breve un ulteriore miglioramento delle regole a beneficio tanto delle imprese quanto degli investitori. La tassonomia, che all’inizio è stata utile nell’ottica di dare uno stimolo al settore, sta iniziando infatti a rivelarsi troppo stringente e sempre più operatori si trovano costretti, per mancanza di dati o per eccessiva prudenza, a riclassificare al ribasso i loro numeri. Dal nostro punto di vista è fondamentale investire sempre di più in attività di ricerca dichiarando “ex-ante” le modalità di analisi e la fonte dei dati utilizzati.
C’è però anche un tema di metodologia, con processi che paiono più affidabili di altri proprio in ragione dei dati da cui partono. In questo senso, in cosa il vostro sistema di screening e selezione si distingue?
Il punto di partenza dell’intero processo consiste nel definire l’orizzonte investibile tramite esclusione dei titoli non conformi al nostro approccio (dalle armi al gioco d’azzardo, dal tabacco e agli alcolici). Uno sforzo che, allo stato attuale, restituisce un orizzonte di circa 650 società dal quale sono esclusi i mercati emergenti per mancanza di dati sufficienti. Superato questo primo step, si procede a calcolare la somma algebrica delle esternalità (positive e negative) che la singola azienda genera con i propri prodotti, siano essi materiali o immateriali: l’obiettivo è infatti costruire un portafoglio che abbia impatto netto positivo a livello complessivo. Da qui la possibilità di includere anche titoli dalla performance negativa, purché presentino una traiettoria di decarbonizzazione in miglioramento e il loro apporto venga compensato a livello di esposizione complessiva.
Un processo che vede l’elemento distintivo soprattutto nell’input informativo. I nostri analisti non lavorano infatti sui tradizionali dati Esg, che danno solo un’indicazione di rispondenza ai parametri delle agenzie di rating, ma si affidano a fornitori di dati che consentono una valutazione numerica di impatto. Il principale di questi è una società finlandese di intelligenza artificiale (già adottata dal Nasdaq per le valutazioni di impact investing) che, anziché rielaborare i dati dei bilanci di sostenibilità redatti dalle aziende, classifica oltre 12mila prodotti e, sulla base di studi scientifici pubblicati, effettua calcoli di impatto legati a fattori sociali, ambientali e di salute. Il team di analisti di Impact Sgr assume queste metriche, le incrocia con quelle di altri data provider e poi usa il dataset per generare ricerca interna e confrontarsi con le società investite in sede di engagement. Non solo, però. Il prossimo passo, su cui stiamo già lavorando, sarà quello di creare degli indicatori sintetici di impatto che possano essere utilizzati dai portfolio managers nello stesso modo dei parametri di analisi fondamentale.
Come integrate i criteri di sostenibilità nei vostri fondi?
Ci siamo organizzati con un’analisi interna di impatto che ci consente una costruzione di portafogli coerenti con la nostra filosofia. Inoltre, su prodotti specifici, adottiamo criteri di analisi ancora più complessi. È il caso di IMpatto Lavoro Italia, fondo azionario specializzato in azioni italiane in cui diamo un focus specifico sul fattore lavoro. Questa analisi è focalizzata su tre dimensioni principali: quanto spazio viene dato all’inserimento e alla formazione dei giovani, come viene trattata la disparità di genere (soprattutto a livello manageriale) e quale attenzione si presta ai temi della sicurezza sul lavoro. Poi svolgiamo attività di engagement, in particolare soft engagement: si tratta di un colloquio condotto con la società, sugli argomenti legati alla sostenibilità, rispetto ai quali possono esserci aspetti da chiarire o da migliorare. Notiamo crescenti progressi e strutturazione nelle aziende quotate per gestire e comunicare questi argomenti.
Parte del vostro focus si sviluppa sulle quotate italiane: perché e con quali risultati?
In Italia l’impact investing rappresenta ancora una nicchia ma il segmento può contare su due grandi forze: il risparmio delle famiglie e, ancor di più, la loro capacità di risparmio. Con il cambio generazionale che incombe, la qualità degli investimenti e la trasparenza sull’analisi di impatto diventeranno sempre più una discriminante per gli investitori e consentiranno alle aziende quotate di migliorare il loro contributo alla crescita del Paese.
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