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Dalla demografia alla geopolitica, tante le ragioni per puntare sui titoli del Paese. Ma oltre alle occasioni ci sono dei rischi. Un dialogo con il ceo del più antico asset manager locale per capire come evitarli. E in che modo approcciare i mercati emergenti nella stagione della complessità
Con un tasso di crescita del PIL da record e il fresco primato di Paese più popoloso al mondo, l’India si candida ufficialmente a diventare anche uno degli hub finanziari più importanti a livello internazionale. E non pare voler neppure rinunciare ad accrescere la sua influenza tra le economie emergenti, soprattutto approfittando del periodo di crisi della Cina. Ciò crea un quadro che offre enormi opportunità di guadagno per gli investitori globali e ancora di più per quelli locali, a partire da UTI International (società controllata al 100% da UTI Asset Managament). Primo gestore patrimoniale del Paese per data di fondazione nonché uno tra i più grandi, l’azienda vanta asset in gestione per 231,7 miliardi di dollari (al 30 giugno 2024) e propone un’offerta altamente diversificata che comprende anche cinque fondi UCITS distribuiti in Europa. Per capire meglio quali prospettive si profilino all’orizzonte, la redazione di FocusRisparmio ha incontrato il ceo Praveen Jagwani.
Praveen Jagwani, ceo di UTI International
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A che punto si trova l’industria indiana dell’asset management? E come si posiziona UTI International?
In India ci sono circa 45 società di asset management, di cui solo le prime 15 sono costantemente redditizie. E sebbene tali numeri siano specchio di un settore molto competitivo, nell’imminente futuro non mancheranno ulteriori spazi di crescita per gli operatori come UTI: se infatti già oggi il mercato azionario indiano vale 5.000 miliardi di dollari e quello obbligazionario 2.500 miliardi, con un tasso di crescita del PIL pari al 6,1%, possiamo solo immaginare quali dimensioni riuscirà a raggiungere il comparto dei servizi finanziari. Inoltre, lo sviluppo di una classe media che consuma, risparmia e investe è da tempo un fattore trainante. Fino al 2019 il numero totale di investitori nazionali registrati era di 40 milioni, oggi si attesta a 160 milioni e ha superato per la prima volta nella storia quello degli operatori stranieri. In altre parole, negli ultimi cinque anni 120 milioni persone si sono affacciate ai mercati finanziari. In un simile contesto, UTI International si pone come punto di riferimento in quanto asset manager più antico del Paese e tra i più grandi. Il nostro focus sono i mercati emergenti, sui quali investiamo con un approccio high-conviction che ci porta a costruire posizioni azionarie su orizzonti di almeno cinque anni. Guardando al futuro, puntiamo a essere percepiti come degli specialisti assoluti del segmento e lavoriamo anche per rafforzare la presenza in altri mercati. Italia inclusa.
È sulla base di tali considerazioni che gli investitori globali dovrebbero guardare all’India?
L’India è attualmente il Paese che vanta il più alto tasso di crescita del PIL al mondo e le più autorevoli istituzioni internazionali, dal Fondo Monetario alla Banca Mondiale fino a società di consulenza del calibro di McKinsey, prevedono manterrà tale primato anche nel medio-lungo termine. Ci sono però anche altri fattori che concorrono a farne una meta privilegiata per gli investimenti finanziari. Da più di 20 anni l’India garantisce infatti rendimenti azionari tra i più appetibili nel panorama globale, pari a oltre quattro volte quelli dell’Europa e quasi doppi rispetto a Wall Street. Senza dimenticare che la sua incidenza sull’indice MSCI Emerging Market è passata nel giro di 15 anni dal 6% al 23%, con proiezioni che potrebbero raggiungere il 40% nel prossimo decennio. Infine, grazie alla sua stabilità interna e alla posizione sullo scacchiere geopolitico, il subcontinente offre un ‘porto sicuro’ rispetto ai rischi che oggi incombono tanto sulla periferia del mondo quanto sull’Occidente: è infatti libero da preoccupazioni per la sicurezza energetica, crisi del debito pubblico o imminenti sfide demografiche.
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Possiamo quindi dire che l’India è il nuovo hub per gli investimenti internazionali e globali?
Il fattore chiave da considerare per rispondere a questa domanda è di tipo demografico e consiste nella popolazione in età lavorativa, cioè quella compresa tra i 15 e i 64 anni. Solo con un’ampia base di cittadini impegnati in attività produttive, dall’edilizia alla finanza fino al turismo, il PIL di un Paese può assicurare quella stabilità nella crescita economica che risulta attrattiva per gli investitori. E se sotto tale profilo perfino un gigante come Pechino pare orami in declino, con Europa e Stati Uniti che sperimentano invece una crisi prolungata, l’India può mettere sul piatto un tasso di natalità molto più elevato.
Quali asset class o settori suggerirebbe a chi voglia comprare azioni indiane?
Grandi mutamenti sociali stanno contribuendo a creare una classe media ricca, intraprendente e propensa alla spesa. In altre parole, sempre più persone stanno uscendo dalla povertà per entrare a far parte della classe media. E, nel momento in cui ciò accade, hanno bisogno di una casa, di una lavatrice, di un frigorifero, di una bicicletta e altro ancora. Ecco perché i beni di largo consumo rappresentano un segmento ricco di opportunità per chi voglia puntare sul mercato azionario del Paese. Questa categoria rappresenta inoltre il 60% del PIL nazionale, una percentuale più elevata non solo di quella degli Stati Uniti e dell’Europa ma anche della stessa Cina, creando una domanda interna tra le più solide al mondo. Quanto invece ai megatrend d’investimento, attualmente non siamo concentrati sull’intelligenza artificiale mentre la tecnologia in senso lato ci attrae solo nella misura in cui produca riflessi su altri settori. L’ecosistema tech indiano è infatti molto più votato alla trasformazione digitale che allo sviluppo hardware o software e questa caratteristica finisce per avvantaggiare aziende coinvolte nello sviluppo di applicazioni o di sistemi per il pagamento digitale. Un altro tema importante sono le infrastrutture, perché il governo mira a migliorare enormemente i collegamenti interni proprio nell’ottica di agevolare gli spostamenti delle persone e il turismo. Per avere un’idea delle ambizioni in gioco, si pensi che sono attualmente in costruzione 70 nuovi aeroporti e l’India ha fatto il più grande ordine di velivoli nella storia: 1.200 tra Boeing e Airbus.
Come Europa e USA, anche l’India ha preso parte al più grande anno elettorale della storia. Ma il responso delle urne ha stupito gli analisti. Come cambia il quadro?
Per quanto ridimensionata, la vittoria di Modi rappresenta una notizia positiva per i mercati finanziari indiani. Se rimarrà al governo, e riuscirà anche questa volta ad assicurarsi i seggi dell’Alleanza Nazionale Democratica, ci sarà continuità nel processo di riforme intrapreso ormai dieci anni fa dal Bharatiya Janata Party di cui è leader. Va poi considerato che, a prescindere dall’ultima tornata elettorale, l’India non vanta una tradizione di grandi partititi politici e ciò induce gli esecutivi che di volta in volta si insediano a non stravolgere il lavoro dei loro predecessori. Mi aspetto quindi che il mercato azionario possa continuare a crescere, in parte anche perché alcuni dei fattori che guidano questa crescita sono indipendenti dalle vicende politiche: da quello demografico, con l’India che nel 2023 ha superato la Cina per numero di abitanti, a quelli socioculturali.
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Allargando lo spettro all’area dell’Asia-Pacifico, quale ruolo vuole ritagliarsi Nuova Delhi? C’è chi pensa che l’obiettivo a tendere sia subentrare alla leadership Pechino e diventare nuova voce per il Sud del Mondo. È così?
La Cina è un gigante, noto per la sua straordinaria intelligenza e per uno spiccato intuito strategico. Per questo credo che, nel corso della nostra vita, non vedremo l’India superarla. Pechino è pronta a sorpassare Washington e probabilmente si affermerà come superpotenza economica globale dominante nei prossimi 10-15 anni. Oltre al fatto che gli USA stanno vivendo una fisiologica fase di declino, come accaduto con tutti i grandi imperi della storia, il Dragone vanta infatti un altro cruciale vantaggio sugli States: non aderisce alle regole. Il colosso Asiatico non solo è aggressivo dal punto di vista geopolitico e militare, circostanza comprovata dalla vicenda di Taiwan, ma sta anche attuando una forma di imperialismo economico su larga scala. La via della Seta ne è un esempio: prima concede prestiti a Stati più deboli per realizzare progetti e, nel momento in cui questi non sono in grado di ripagarli, acquisisce parti della loro economia. Hanno subito questa sorte il Pakistan e lo Sri Lanka: i prossimi saranno l’Africa e all’America Latina. E nessuno nel mondo sviluppato o nella NATO è in grado di impedire che accada. Non va poi dimenticato che la Cina controlla l’industria globale, circostanza che le garantisce una leva significativa contro eventuali sanzioni: i suoi costi di manodopera sono ancora molto competitivi, supervisiona le catene di fornitura internazionali e produce il 70% delle molecole utilizzate come base per i medicinali.
In che modo approcciare i mercati emergenti in un periodo di così elevata complessità come quello che ha appena descritto?
Il punto di partenza è abbandonare il pensiero storico e rendersi conto che trattare i mercati emergenti come un’unica entità risulta ormai un approccio obsoleto. Si tratta di un concetto che aveva senso 20 anni fa, quando solo il mondo sviluppato era davvero in crescita e il paradigma dominante imponeva di considerare tutto quanto fosse esterno ad Europa o Stati Uniti come parte di un piccolo universo indistinto, nebuloso, rischioso. Oggi invece non esiste nulla che accomuni i driver economici e di investimento del Brasile a quelli dell’India o della Turchia e chi decidesse di comprare indistintamente i titoli di tali Paesi andrebbe incontro probabilmente a risultati modesti. La chiave interpretativa migliore è piuttosto quella di operare un’attenta selezione geografica, guardando solo alle aree che promettono di vivere il maggiore sviluppo nei prossimi 10 o 20 anni. Un altro fattore da considerare è poi la pazienza: oggi molti operatori credono di poter realizzare rendimenti del 10%-12% in pochi mesi ma investire nei mercati emergenti richiede di costruire posizioni dagli orizzonti temporali molto più lunghi e mantenerle con determinazione. Infine, risulta cruciale una presenza sul territorio. Si possono comprare azioni Apple senza trovarsi fisicamente negli Stati Uniti perché Wall Street è un mercato in cui i dati circolano liberamente e le asimmetrie informative sono ridotte al minimo, ma gli EM sono per definizione inefficienti e quindi impongono di conoscere le sfumature locali. Ciò significa condurre indagini di mercato, incontrare le famiglie che hanno avviato le aziende, eseguire analisi sui fondamentali per evitare di farsi influenzare dalle narrazioni fuorvianti e identificare le aziende con un reale potenziale di crescita.
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