Per l’economista Wade (Schroders) è prematuro iniziare a preoccuparsi di un risveglio fuori controllo dell’inflazione che possa alterare le attuali politiche delle banche centrali
Keith Wade, chief economist e strategist del gruppo Schroders
Dopo anni di tentativi andati a vuoto per far tornare una qualche forma d’inflazione nelle economie sviluppate da parte delle banche centrali, oggi le prospettive sembrano invertirsi. Con i banchieri impegnati a inondare di liquidità il sistema per scongiurare la crisi economica provocata dal Covid19, fra i cittadini si fanno largo i primi timori relativi a un improvviso e brusco rialzo dei prezzi al consumo dovuto proprio alle conseguenze della pandemia.
La rapida crescita delle riserve di denaro e l’aumento dei prezzi delle commodity stanno alimentando i timori riguardo a un ritorno dell’inflazione. Ma quanto dobbiamo davvero preoccuparci?
I rischi di un ritorno troppo veloce dell’inflazione
“Sicuramente gli investitori hanno buone ragioni per temere l’inflazione. Le valutazioni di mercato al momento presuppongono che i tassi di interesse resteranno bassi o vicini allo zero per un tempo indefinito. Ciò si basa sull’assunzione che l’inflazione aumenterà lentamente per raggiungere il 2% solo verso la fine del 2023. Se però tale andamento accelerasse, bisognerebbe rivedere le politiche sui tassi per i prossimi tre anni: le banche centrali sarebbero costrette a ridurre la liquidità, i mercati obbligazionari inizierebbero a prezzare tassi più alti e gli investitori dovrebbero riconsiderare le valutazioni azionarie, dando inizio a un periodo di volatilità finanziaria con un ribasso sia delle azioni che dei bond”, spiega Keith Wade, chief economist e strategist del gruppo Schroders.
Secondo l’esperto ci sono tre principali ‘strade’ che potrebbero portare a un aumento dell’inflazione: la sottostima nel calcolo dell’attuale inflazione; l’eccessivo aumento della disponibilità di denaro presso le famiglie ed infine eventuali shock sul lato dell’offerta.
“Ciascuno di questi tre scenari ha una certa validità – sostiene l’economista di Schroders –, e il primo riguardante un errore di misurazione dell’inflazione si sta probabilmente già verificando”.
E prosegue aggiungendo che la preoccupazione maggiore è quella relativa all’aumento della disponibilità di denaro benché, precisa, “gli effetti del Covid19 sulle diverse fasce di reddito sono stati particolarmente polarizzati, concentrando l’aumento della liquidità e dei risparmi tra i più abbienti, che continueranno a conservare il proprio capitale piuttosto che spendere”.
Il rischio di sottostima dell’inflazione
Wade sostiene che i ‘pesi’ utilizzati negli indici Cpi (Consumer price index, ndr), che si basano sulle abitudini di spesa in tempi normali, non sono allineati alla realtà economica creata dal Covid-19.
“Innanzitutto, la chiusura di molte istituzioni ha impedito di raccogliere i dati in modo normale. In secondo luogo, vi è stato un cambiamento nelle abitudini di spesa: ad esempio, i consumatori hanno ridotto viaggi, trasferte e uscite, mentre hanno aumentato i soldi spesi in alimenti consumati a casa. Poiché i prezzi degli alimenti sono aumentati e quelli dei trasporti sono diminuiti, l’utilizzo dei ‘pesi’ tradizionali porta a sottostimare l’inflazione. Secondo le stime del Fmi e i nostri calcoli, considerando gli Usa, l’errore di misurazione vale circa lo 0,3-0,4%. Tuttavia, questo problema dovrebbe svanire via via che le abitudini di spesa torneranno alla normalità nel 2021”.
Quindi per ora sembra prematuro iniziare a preoccuparsi di un risveglio fuori controllo dell’inflazione e ancor più pensare che le banche centrali, in piena pandemia, possano cominciare ad una fase di rimozione degli attuali stimoli all’economia.
“I mercati continueranno a preoccuparsi, ma l’ipotesi della permanenza dei tassi bassi per un lungo periodo dovrebbe restare valida nel 2021 e potenzialmente anche più in là”, conclude la disamina Wade.
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