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Vendite, percezione del brand e, in ultimo, la sua stessa valutazione di Borsa, sono legate a doppio filo alla capacità delle maison di comunicare la trasformazione Esg. Per questo aumentano iniziative, premi e certificazioni. Ma alla prova dei fatti non sempre gli indici danno valutazione entusiasmanti. Per ora
Cosa significa moda sostenibile? La moda sostenibile è di moda? E soprattutto quanto conta l’adesione ai principi Esg nelle scelte dei clienti, nella percezione del brand e, in ultimo, nella sua stessa valutazione?
Milano si prepara a settembre ad ospitare la quinta edizione dei Cnmi Fashion Awards (che verranno assegnati il il 25 del prossimo mese in un evento al Teatro alla Scala), riportando sotto i riflettori il tema di una moda rispettosa dell’ambiente e la società in tutte le sue fasi: dalla ideazione, ai processi di produzione sull’intera filiera, fino alla distribuzione e alla vendita.
Il premio della Camera Nazionale della Moda Italiana rappresenta una delle molteplici iniziative green che interessano il settore. Moda e lusso, rispetto ad altri ambiti ad alto tasso di emissioni (si stima in ogni caso che il fashion sia responsabile per il 10% delle emissioni globali annue di carbonio) vantano in effetti una clientela particolarmente sensibile ai temi Esg e il valore del brand è connesso a doppio filo con la percezione dell’adesione della maison ai temi della sostenibilità e circolarità. Ecco quindi il proliferare di patti (a iniziare dalla Fashion Industry Climate for Action Charter che, sotto l’egida delle Nazioni Unite, promuove dal 2018 il raggiungimento delle zero emissioni entro il 2050 nel settore), certificazioni, premi, iniziative (come Green Carpet Fashion Award e Green Carpet Challenge, iniziative di standing internazionale promosse da Eco Age) e indici di riferimento che, pur partendo da premesse simili, non sempre portano a uguali risultati.
Come il Business of Fashion Sustainability Index che, giunto alla sua seconda edizione, vuole tracciare su una scala da uno a cento i progressi nella sostenibilità (e nello specifico nella trasparenza, nelle emissioni di acqua e sostanze chimiche, nel trattamento dei rifiuti, nei materiali e nei diritti dei lavoratori) di trenta delle maggiori società quotate in borsa nel lusso, nella moda e nell’abbigliamento sportivo. Il punteggio medio tuttavia è di soli a 28 punti su cento mentre quello più elevato, conquistato da Puma, non oltrepassa i 49. Sul podio anche Kering (47) e Levi Strauss (44). Alla prova dei fatti quindi il fashion, almeno per ora, non sembra essere all’altezza della sfide Esg e della trasformazione richiesta soprattutto a causa della scarsa qualità dei dati e della mancanza di investimenti.
Proprio la trasparenza sui dati è l’elemento cruciale del Fashion Transparency Index 2022 che, giunto ormai alla sua settima edizione, si basa sul principio che non c’è sostenibilità senza trasparenza. Per questo il movimento no-profit legato alla moda sostenibile Fashion Revolution ogni anno analizza oltre 250 maison con un fatturato superiore a 400 milioni di dollari e stila una graduatoria legata alla pubblicazione di dati societari relativi a 246 parametri (tra cui l’impatto sull’ambiente, i processi legati alla filiera produttiva, lo smaltimento dei rifiuti, ma anche i diritti umani, le condizioni di lavoro e la parità di genere). Anche in questo caso il punteggio medio è tutt’altro che entusiasmante: 24 per cento. Addirittura solo l’11% delle aziende pubblica i dati sui test sull’acqua di scarto, percentuale che sale al 15% per quanto riguarda i dati relativi ai volumi di produzione (e questo nonostante l’evidenza del fenomeno della sovrapproduzione che rappresenta un evidente spreco) e al 24% per quanto attiene i dati relativi all’impatto delle microfibre (si consideri che il tessile rappresenta la maggiore fonte di microplastica negli oceani). Ridotte infine al lumicino le iniziative legate all’inclusione. Non manca tuttavia qualche sprazzo di luce: se nel 2016 solo cinque grandi marchi su 40 (12,5%) pubblicavano i dati dei propri fornitori, oggi a farlo sono 121 su 250 (48%) consentendo quindi una migliore tracciabilità. L’azienda più trasparente, a giudizio del report, è un marchio tricolore Ovs con il 78%, punteggio condiviso con Kmart Australia e Target Australia. Sul podio si posizionano anche H&M, Vf: The North Face e Timberland al 66% e Vans al 65 per cento. Buoni risultati infine per Benetton (al 63%), Gucci (59%) e Calzedonia (al 54%).
A sostegno della moda Esg un anno fa, è sceso in campo anche il Principe Carlo che ha evidenziato come “le persone abbiano il diritto di sapere se ciò che acquistano è stato creato in modo sostenibile”, lanciando, nell’ambito della Sustainable Markets Initiative, un certificato digitale che racconta la storia di ogni capo di abbigliamento permettendone la tracciabilità. Tra i primi aderenti al progetto si annoverano due icone del lusso made in Italy come Giorgio Armani e Brunello Cucinelli.
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