Fed equilibrista: per i gestori la stretta è quasi al capolinea
Secondo gli investitori, Powell ha optato per l’unico compromesso possibile di fronte a due sfide contrastanti. E le tensioni bancarie favoriranno una svolta dovish
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Il crack di Silicon Valley Bank è solo un esempio del “prezzo che stiamo pagando dopo decenni di denaro facile”. Non sono di certo mezzi termini quelli usati da Larry Fink nel descrivere le preoccupazioni che stanno tenendo con il fiato sospeso i mercati globali. Nella consueta e seguitissima lettera agli investitori, il numero uno di BlackRock ha infatti evocato anche lo spettro di una “crisi lenta” del sistema finanziario statunitense e avvertito che altri default non sono da escludere. Una prospettiva che, unita al probabile persistere dell’inflazione, è destinata a minare la fiducia del mercato con conseguenze sui rendimenti.
Il fondatore e amministratore delegato del colosso Usa dei fondi ha sempre inviato due lettere: una ai ceo delle società in cui investe e una ai propri azionisti. Quest’anno, tuttavia, ha scelto di unirle proprio perché “tutti i nostri stakeholder stanno affrontando molti degli stessi problemi”. A partire proprio da quello esploso con Svb. “Non sappiamo ancora se le conseguenze del denaro facile e delle modifiche delle regole avranno un effetto a cascata sul settore delle banche regionali americano con ulteriori chiusure”, mette in guardia Fink nel testo.
Per Fink le politiche fiscali e monetarie straordinariamente aggressive messe in campo dopo la crisi finanziaria del 2008 hanno contribuito a far salire l’inflazione a livelli monstre, costruendo un gigantesco domino dove il primo tassello a cadere è stato il repentino aumento dei tassi. E il secondo, appunto, l’istituto californiano. La domanda è ora se ne cadranno altri, con i fondi investiti in asset illiquidi, come private equity, real estate e credito privato, che “potrebbero essere il terzo”, in particolare se hanno utilizzato denaro preso in prestito per aumentare i rendimenti. Intanto, per Mr. BlackRock, di certo c’è che le banche ritireranno i prestiti, spingendo più aziende a rivolgersi ai mercati dei capitali, creando opportunità per investitori e gestori patrimoniali.
Quanto al resto del quadro, nella sua lettera di 20 pagine, Fink ha identificato molti altri rischi per il sistema finanziario, comprese le tensioni geopolitiche e la frammentazione globale. Tutti fattori che, a suo dire, si tradurranno in un’inflazione persistente e minori rendimenti per gli investitori. Per il manager, infatti, lo sviluppo di economie sempre più segmentate, l’aumento del protezionismo e della polarizzazione hanno portato la sicurezza nazionale ed economica al centro dell’attenzione e avranno implicazioni significative sul modo in cui gli asset owner sceglieranno di allocare il capitale e progettare portafogli durevoli. La sua tesi è che i leader pubblici e privati stiano “scambiando” l’efficienza e la riduzione dei costi con la resilienza della catena di approvvigionamento e la sicurezza nazionale. Con la conseguenza che il carovita persisterà e che, per i banchieri centrali, sarà più difficile domarlo. “Ritengo più probabile che l’inflazione si avvicinerà al 3,5% o al 4% nei prossimi anni”, sostiene.
Fink si è poi anche difeso dalle critiche per il suo esplicito sostegno attraverso gli investimenti alla lotta al cambiamento climatico (un sostegno che lo ha reso bersaglio dei conservatori) e ha parlato della “crisi silenziosa dei sistemi pensionistici”. Per il manager, che gestisce quasi 9mila miliardi di dollari, quando le persone hanno paura possono risparmiare, ma non investiranno se non hanno fiducia nel futuro. “Molto di ciò che abbiamo perso negli ultimi anni ha eroso l’ottimismo e la speranza in un futuro migliore, ma questa speranza si rivela molto importante sia per la leadership che per gli investimenti. Per contribuire ad affrontare la crisi, dobbiamo capire cosa guida il processo decisionale finanziario nei diversi mercati”, ha concluso.
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