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La società con headquarter a Londra ma anima italiana ha creato un fondo chiuso lussemburghese per completare il viaggio nella catena del valore delle energie verdi. Obiettivo: “Complementare l’ingegneria industriale con quella finanziaria per massimizzare rendimento e impatto ambientale”. Parola del co-founder e managing director Fabrizio Caputo
“La transizione energetica in Italia non solo è possibile, ma è realizzabile in meno di cinque anni”. Ne è convinto Fabrizio Caputo, co-founder e managing director di Nexta Capital Partners, che individua però due grandi ostacoli per il raggiungimento di un obiettivo condiviso in modo unanime, perlomeno a parole. Il primo è l’indeterminatezza del quadro normativo e regolamentare e il secondo è un approccio ancora acerbo dei grandi investitori italiani “che con il ritorno di tassi positivi preferiscono la liquidità senza tenere in debito conto il potenziale di decorrelazione dalle oscillazioni dei mercati che offerta dall’investimento in infrastrutture rinnovabili”, spiega.
Fabrizio Caputo, co-fondatore e managing director di Nexta Capital Partners
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Eppure il dibattito sulla necessità di una svolta green nella produzione dell’energia ha ormai una discreta storia nel nostro Paese. Non è così?
La transizione energetica in Italia è stata contrassegnata finora da due momenti. Il primo, partito intorno alla metà degli anni 2000, caratterizzato da forti incentivi; persino eccessivi, che hanno fatto nascere un’industria non autonoma, di scarsa dimensione e qualità in quanto votata esclusivamente a catturare fondi pubblici. Questo vale in particolare per fotovoltaico e biogas mentre l’eolico si è sempre contraddistinto per un maggiore grado di efficienza.
Poi è arrivato il decreto Romani (Decreto Legislativo 3 marzo 2011 numero 28, ndr), che ha vietato gli incentivi per impianti costruiti in area agricola e ha distrutto il mercato all’improvviso con un provvedimento di valore addirittura retroattivo che ha fatto scappare tutti gli investitori esteri.
A fronte di un quadro in cui non c’erano più investitori né un quadro regolatorio chiaro, noi abbiamo analizzato il mercato e capito che era maturo per la market parity, ossia per una reale competitività degli impianti eolici e fotovoltaici con il fossile.
Che cosa significa esattamente market parity?
Possiamo spiegarlo a partire dalla storia della nostra società. Già tra il 2016 e il 2017, quando abbiamo avviato Nexta Capital Partners, produrre un kilowattora da fotovoltaico era già più conveniente di produrre un kilowattora da gas. Abbiamo quindi iniziato a realizzare progetti indipendentemente da qualsiasi incentivo. Né banche né investitori erano pronti, ma in cinque anni il mondo è cambiato. Ogni settimana incontriamo soggetti da tutto il mondo che vogliono entrare nel mercato italiano delle rinnovabili. È un mercato indipendente che non ha più bisogno dell’intervento dello Stato da un punto di vista economico ma ne ha un estremo bisogno dal punto di vista regolatorio.
A che punto siamo oggi? Qual è il quadro in cui vi trovate ad operare come attori del settore delle rinnovabili?
La transizione energetica ha avuto un’accelerazione con lo scoppio della guerra in Ucraina ma siamo ancora molto indietro rispetto ai Paesi del Nord Europa che sono oggi quasi interamente alimentati con energie rinnovabili. Se avessimo lavorato bene negli anni duemila l’Italia avrebbe potuto essere in una situazione addirittura migliore, ma nel nostro Paese ci sono ancora molti detrattori del settore che si scagliano, ad esempio, contro la direttiva europea RED III (Direttiva 2023/2413, pubblicata in Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europa del 31 ottobre 2023, ndr) che rappresenta il vero elemento caratterizzante del contesto attuale.
La direttiva prevede che entro il 2030 i paesi membri dovranno avere una quota di energie rinnovabili nei consumi totali di energia pari al 42,5%. Per l’Italia significa costruire impianti per 12 gigawatt all’anno. Considerando, per assurdo, che fosse tutto fotovoltaico significherebbe costruire su una superficie pari a 20.000 campi di calcio ogni anno per raggiungere i target.
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Non proprio un compito semplice. Siamo pronti?
Il sistema da un punto di vista scientifico-tecnologico è pronto. La transizione non sarebbe una questione di decenni ma di pochi anni se solo ci fosse un quadro politico-normativo adeguato. È indubbio che ci siano due interessi pubblici confliggenti, nel momento in cui si affronta il tema delle infrastrutture di energia rinnovabile: l’interesse del paesaggio e quello della transizione energetica. Esistono norme centrali ma la loro applicazione è spesso esposta alla granularità di una parcellizzazione di enti, ognuno con il potere di veto a prescindere dal fatto che tutte le norme esistenti siano rispettate. In Italia, in meno di cinque anni, potremmo costruire tutti i progetti necessari alla transizione e i sistemi si potrebbero nel frattempo adeguare, smettendo di importare, ad esempio, energia nucleare dalla Francia.
Come catturare questo trend da un punto di vista di investimento? Qual è la soluzione proposta da Nexta Capital Partners?
La nostra risposta è Nexta Renwable Fund. Un fondo chiuso di diritto lussemburghese che nasce dalla grande crescita dell’attività del Gruppo negli ultimi anni. Il portafoglio di asset infrastrutturali era diventato, infatti, tale da far sorgere la domanda circa la migliore modalità per massimizzarne il valore. Il modello di business poteva fermarsi a quello del pure developer, dove da sviluppo e progettazione si passa direttamente alla cessione dell’asset, ma il nostro obiettivo è sempre stato quello di gestire verticalmente l’intera catena del valore.
Partiamo dall’individuazione dell’area idonea ad accogliere un impianto di generazione di energia rinnovabile, proseguiamo con lo sviluppo dei progetti fino allo stadio denominato ready to build. Ed è a quel punto che interviene il fondo. Al posto di vendere a una terza parte per la costruzione, abbiamo deciso di creare un veicolo in grado di catturare i capitali necessari per fare i successivi passi, tenendo conto che gli investimenti di sviluppo e progettazione sono tra le 15 e le 20 volte inferiori rispetto a quelli di costruzione e gestione.
L’unicità del prodotto è il suo punto di partenza, costituito dall’esistenza di una pipeline di investimenti infrastrutturali sviluppata dal promotore stesso. Questo non significa che il fondo non possa acquistare anche altri progetti, qualora convenienti, ma poggia su una solida base “interna”. Lo stesso vale per il sostegno ottenuto dall’expertise industriale del gruppo in materia di infrastrutture, che si concretizza, ad esempio, in un controllo del rischio applicato a tutti gli aspetti tecnici di ogni singolo progetto preso in esame.
Quali sono caratteristiche e dimensioni del fondo? Dove investirà?
Abbiamo messo in campo una sustainability policy molto sofisticata che ci permette non solo di classificare il nostro fondo come articolo 9 secondo i parametri della direttiva Sfdr, ma di farlo assicurando il 100% di investimento sostenibile. Possiamo farlo perché, data la nostra natura industriale, noi abbiamo piena visibilità sulla provenienza degli asset in cui investiamo. La grande maggioranza dei progetti su cui puntiamo sono infatti sviluppati direttamente dal nostro gruppo secondo linee guida che ne certificano la sostenibilità fin dall’origine. Per tutti gli altri i controlli sono ad altissimo livello.
Il Nexta Renwable Fund ha un obiettivo dimensionale di 500 milioni di euro con un primo closing previsto per la fine del 2024 a 150 milioni e closing finale a fine 2025. Ci poniamo, inoltre, l’obiettivo di raccogliere 150 milioni solo in Italia anche perché la maggior parte degli asset infrastrutturali saranno nella Penisola. Il fondo acquisirà anche impianti in Portogallo, Spagna e Grecia, concentrandosi su tre tecnologie: solare fotovoltaico, eolico e biometano. Il target di rendimento netto è tra il 10% e il 12% e la durata è stabilità in 12 dalla fine del primo closing.
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