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Come uno stile di vita a zero rifiuti sta cambiando i business model e i numeri di imprese e mercati
L’evoluzione dei principali assiomi Esg si concretizza nell’economia fondata sui principi zero waste ovvero a zero rifiuti. Energia, inflazione, recessione e guerra in Ucraina rischiano di mettere in ombra le tematiche Esg, destinate in ogni caso a riprendere quota anche in vista degli obiettivi internazionali prefissati dall’Onu con l’Agenda 2030 che, in ultimo, pongono al centro del dibattito la corretta gestione delle risorse anche attraverso una adeguata pianificazione che eviti gli sprechi e preveda invece il riutilizzo e il riciclo dei rifiuti. E le opportunità di investimento non mancano per cavalcare questa inevitabile transizione da un’economia lineare (take, make, waste), basata sull’estrazione di risorse naturali su vasta scala, a una circolare, snella (fare di più utilizzando di meno), pulita, inclusiva e a zero rifiuti. Tanto più che vivere e investire secondo i dettami previsti dalle fondamenta dell’economia circolare è imposto dalla sensibilità delle nuove generazioni con cui le imprese devono rapportarsi.
I numeri
I dati sono impressionanti. Secondo il Circularity Gap Report 2022 ad essere riciclato è solo l’8,6% (dal 9,1% di tre anni fa) delle risorse utilizzate su base annua che ammontano ormai oltre 100 miliardi di tonnellate (erano 27 miliardi di tonnellate nel 1970 e 84 miliardi di tonnellate nel 2015). La crescita dei rifiuti corre quindi più rapidamente dell’accelerazione dei consumi registrata negli ultimi anni. Più in dettaglio, secondo il Report, in dodici mesi sono stati raccolti 32,6 miliardi di tonnellate di rifiuti di cui solo 8,65 miliardi di tonnellate sono stati riciclati con un’enorme spreco di risorse ed energia e un aumento delle emissioni globali.
Senza considerare poi che, stando alle attuali proiezioni, entro il 2050 saranno estratti dal pianeta tra i 170 e i 184 miliardi di tonnellate di risorse all’anno e solo una minima parte di queste saranno riciclate. Un ritmo insostenibile “L’impatto della cultura consumistica sul pianeta e sulla società è chiaro: è distruttivo” sostiene il Report secondo cui “stiamo vivendo in un’era di rapida crescita di rifiuti e inquinamento e, al contempo, di scarsità delle risorse, perdita della biodiversità e allarme sul rialzo delle temperature globali”. In questo scenario “l’economia circolare è un’alternativa: un approccio a uno stile di vita, che pur in grado di provvedere alle necessità della popolazione, rispetti le disponibilità del pianeta”. Per questo le tematiche dell’economia circolare stanno divenendo “mainstream” così come le strategie per ridurre drasticamente l’utilizzo delle risorse.
Le strategie
Per la transizione verso a uno scenario a zero rifiuti è prima di tutto necessario intervenire nelle singole fasi della catena del valore di un prodotto, ripensando al consumo, limitando l’uso di materie prime ed estendendo la vita economica di un bene anche attraverso la creazione di adeguati sistemi di raccolta e riciclo al termine della vita di un prodotto. Le parole d’ordine, a cui l’economia reale e la finanza dovranno adattare il passo, sono quindi quattro: consumare di meno (e quindi spazio ai modelli di business che valorizzano la condivisione o l’affitto dei beni; l’efficienza energetica; la digitalizzazione e gli spazi multifunzionali); utilizzare più a lungo (focus quindi su materiali durevoli; imprese di riparazione; rinnovazione); produrre in modo sostenibile (attenzione quindi a agricoltura rigenerativa, energia rinnovabile e materiali rigenerati); utilizzare di nuovo (attività quindi che riciclano, riassemblano o producono energia dai rifiuti).
Moda e design
Se la teoria è condivisa, la pratica “no waste” è più complessa. Ciononostante molte imprese stanno sperimentando progetti in questa direzione. Come Ikea che ha costituito il Circular Hub, dove “dare una seconda vita” a mobili usati dello stesso brand per “ridurre i ridurre i rifiuti” e ha incrementato il servizio di riparazione per mobili vecchi fornendo piccoli pezzi di ricambio a zero costi (per dettagli in merito si rinvia al sito). O Bottega Veneta (Kering) che ha recentemente lanciato una specie di garanzia a vita su alcuni suoi prodotti per consentire un numero illimitato di riparazione degli stessi capi e fornendo di conseguenza una risposta concreta in tema di responsabilità ecologica dei marchi.
Preloved fashion
Al contempo è letteralmente esploso il business della moda “preloved”, ovvero della vendita di capi di lusso e non solo di seconda mano. Secondo le stime di Barclays il settore toccherà quota 77 miliardi di dollari entro il 2025 (dai 36 del 2021) di cui 47 attribuiti al resale online e 30 miliardi all’usato tradizionale con un tasso di crescita 11 volte più rapido rispetto a quello del più ampio ambito retail. Persino H&M ha investito nel second hand con la piattaforma Sellpy (dove sono in vendita capi e accessori non solo a marchio del gruppo svedese), già attiva in venti mercati, Italia compresa. Kering invece è entrata con il 5% capitale in Vestiaire Collective che, forte anche della recente acquisizione di Tradesy, conta su 23 milioni di clienti ed è considerata un punto di riferimento dell’alto di gamma dalla generazione Z. Nel settore hanno investito anche Ynap, eBay e Zalando. Senza considerare Vinted, leader europeo del settore (con oltre 75 milioni di utenti registrati di cui la maggioranza di età compresa tra i18 e i 39 anni) e primo unicorno lituano valutata 3,5 miliardi di euro che recentemente ha completato un’Opa 30 milioni di dollari su Rebelle, piattaforma svedese di vendita di seconda mano di capi di lusso, o la rivale inglese Depop.
Agricoltura rigenerativa
In fermento altri due ambiti, legati a doppio filo, su cui le imprese stanno consolidando strategie no waste: quello agricolo e quello alimentare dove cresce la maturità e la consapevolezza degli utenti finali anche grazie alla individuazione di una giornata internazionale dedicata alla Consapevolezza sugli sprechi alimentari fissata il 29 settembre.
Per quanto riguarda il primo, il punto di partenza sono le imprese attive nella agricoltura organica e rigenerativa (che si traduce in tecniche che evitando lo sfruttamento intensivo dei terreni rispettano la sostenibilità dell’ecosistema e proteggendo, in ultimo, la fertilità del suolo) e bio. Che non si tratti di un mondo fantascientifico lo dimostrano l’interesse dei fondi e gli investimenti che molte multinazionali stanno approntando in questa direzione. Come Knorr (Unilever) che recentemente ha lanciato proprio in Italia un progetto pilota (BuonCibo Knorr) di agricoltura rigenerativa che punta, in ultimo, a ridurre fino al 35% le emissioni di gas serra e del 30% il consumo di acqua. PepsiCo, invece, ha annunciato l’obiettivo di diffondere pratiche rigenerative su sette milioni di acri (poco meno dell’intero territorio utilizzato nel mondo per produrre le risorse necessarie all’azienda) entro il 2030, eliminando almeno tre milioni di tonnellate di emissioni di gas serra, all’interno del progetto “Agricoltura positiva” che passa anche attraverso il miglioramento di mezzi di sussistenza delle oltre 250mila persone attive nella sua filiera articola e in un approvvigionamento sostenibile al 100 per cento
Cibo del futuro
L’urgenza sussiste anche in ambito alimentare considerando che, secondo le stime della Fao (Food and agricultural organization), proprio in questo ambito lo spreco sfiora a livello mondiale il 30% circa della produzione e causa il 10% delle emissioni di gas serra, senza considerare l’utilizzo inutile di risorse (terra, acqua ed energie). Le parole chiave per contrastare questo trend su cui la soglia di attenzione del pubblico, e in particolare della generazione Z, è già alle stelle sono quindi per alimenti locali, sostenibili (quindi bio, stagionali e se non vegani con una forte attenzione sulle tecniche di allevamento del bestiame) e salutari (meno zuccheri e meno cibo processato). Il cibo che verrà sarà biologico, sostenibile, a km zero, con una importante presenza di una alimentazione vegana/vegetariana e soprattutto zero waste. Investire sull’alimentazione del futuro significa prima di tutto capire come sostenere trend che, ad oggi, sembrano inevitabili e come traghettare l’ambito alimentare no waste da una visione caritatevole per il recupero del cibo in scadenza a favore, gratuitamente, dei più bisognosi a un business redditizio non limitato alle piattaforme di servizi già presenti nel settore (come too good to go). Alcune imprese di ristorazione hanno già avviato progetti in tal senso a livello locale (Nolla a Helsinki è stato tra i pionieri, ma oramai si contano diverse esperienze a livello mondiale) e l’interesse è alle stelle.
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