Il rallentamento dell’economia ci sarà e sarà di lunga durata. Dopo 14 anni di ‘free debt and go’, i nodi stanno venendo al pettine tutti insieme
Per gli investitori è tempo di allacciare le cinture: l‘atterraggio non sarà duro come temuto ma si preannuncia molto lungo. Ne è convinto Maurizio Novelli, gestore del fondo Lemanik Global Strategy Fund, secondo cui è ormai sempre più evidente che se il ‘landing’ si rivelerà soft sarà solo per la capacità degli Stati Uniti di “massaggiare” i dati sul Pil. La prova sta nei numeri: negli Usa il credito al consumo è pari in totale a oltre il 20% del prodotto interno lordo (contro il 10% del periodo pre-2008) e finora ha costituito, assieme all’espansione del debito pubblico che prosegue inesorabile, il vero motore della crescita.
Un sistema falsato
“Nonostante tutti i sussidi pubblici, l’economia rallenta, i consumi hanno iniziato a cedere e i tassi di default sul credito hanno cominciato a salire comunque”, avverte Novelli, sottolineando come gli artifici contabili per non fare risultare un prodotto interno lordo negativo e sbandierare un mercato del lavoro solido contrastino con i principali indicatori di consumer confidence e di altro genere. “Le multinazionali trattengono i profitti fatti all’estero nei paradisi fiscali, non pagano le tasse al governo americano e utilizzano queste risorse ‘tax free’ per fare buy back in modo da sostenere la borsa. Investimenti e redditi reali sono in costante contrazione da anni e la piazza finanziaria di New York è diventata il principale indicatore di ‘benessere’ per un economia che produce profitti super concentrati in pochi settori”, chiarisce.
Finora, secondo Novelli, il meccanismo è stato facilitato da un contesto di alta inflazione: l’applicazione di un deflatore nettamente più basso del dato effettivo ha, cioè, consentito ai governi di ‘produrre’ dati reali di Pil gonfiati. Ora, però, l’economia americana appare focalizzata sul cercare di sostenere un modello di sviluppo basato su un debito pubblico e privato insostenibile e un mercato finanziario che non può permettersi cedimenti. “Questo meccanismo può reggere solo se la ricchezza prodotta si distribuisce in modo diffuso nel sistema e alimenta una crescita generale dei redditi che sostengono un debito in costante accumulazione. Attualmente non è così”, puntualizza l’esperto.
Cercare di modificare ora questo sistema pare alquanto difficile. “L’inflazione ha già scardinato l’asseto e l’indice di borsa rimane l’ultimo baluardo di difesa sulla psicologia di massa prima della crisi, ma per reggere richiede un esasperato scostamento dai fondamentali. Cosa che a sua volta spiazza gli investitori a favore degli speculatori”, avverte. Per sostenere un simile mercato, le poche aziende che possono permetterselo devono continuare a fare buy back, sottraendo risorse agli investimenti reali e accentuando la stagnazione dell’economia, che richiede poi costante debito pubblico. Secondo Novelli, insomma, solo una crisi potrebbe essere la via di uscita da un sistema già in crisi: “Il problema non è da ricercare solo negli errori delle politiche monetarie perchè sarebbe opportuno chiedersi se il modello americano, costruito sulle politiche di quantitative easing, meriti la colossale scommessa che i mercati stanno prezzando”, osserva.
Intanto, l’impatto dei tassi più alti inizia a creare danni evidenti: real estate in crisi, banche in difficoltà, fondi pensione che necessitano bailout, consumi in cedimento, restrizione del credito bancario e aumento delle insolvenze. “A causa dello stock di debito accumulato nel sistema a tassi molto bassi, non siamo in grado di permetterci un deleverage rapido come nel 2008. Il sistema non reggerebbe. È quindi molto probabile che ci sarà il tentativo di intraprendere un deleverage lento e controllato”, sostiene il gestore Lemanik, secondo cui tutto il debito contratto a tassi bassi dovrà essere rinnovato a tassi più alti. E molti operatori economici non reggeranno il rollover ai tassi attuali, con la conseguenza che le insolvenze rimarranno un fenomeno strutturale dell’economia.
“Il lento processo di assorbimento delle insolvenze sul debito, non sopportabile a tassi diversi da zero, configura lo scenario di Balance Sheet Recession in cui ci stiamo addentrando, che con un eufemismo chiamiamo soft landing”, aggiunge. E il debito da rinnovare ha un ulteriore problema perché probabilmente contratto per effettuare investimenti a redditività non più compatibile con una economia di questo tipo. Questo, per Novelli, comporta due effetti: riduzione delle posizioni debitorie che sostengono investimenti non più compatibili con tassi alti, liquidazione degli asset che sono a collaterale del debito. Il real estate commerciale ne è un esempio tipo e costituisce la punta dell’iceberg del sistema.
Per Novelli l’intera economia mondiale, dagli Stati Uniti l Regno Unito, passando per Australia, Canada e Cina, ha accumulato passivo per acquistare asset a redditività compatibile con tassi d’interesse molto bassi. Solo che il Qe è durato 14 anni e la dimensione di tali posizioni è sconosciuta ma certamente colossale: “Il motivo per il quale il soft landing potrebbe essere ‘giapponese’ è quindi collegato a quello che abbiamo fatto in 14 anni”.
Altro esempio sono i titoli di Stato, che procurano i problemi ai bilanci bancari. E per l’esperto ovviamente lo stesso principio va esteso agli investimenti reali nel suo complesso e ad altri segmenti dell’economia reale.” A questo punto, mentre si cerca di convincere tutti che il ‘soft landing’ non comporta alcun rischio, nessuno può sapere quanto un ‘soft landing’ prolungato possa tenere, e se non rischia invece di trasformarsi in un ‘hard landing’ strada facendo. Per questo motivo rimango estremamente negativo sulla tenuta di questo sistema, dato che, nel migliore dei casi rimane imballato in un rallentamento di lungo termine che può accentuare i problemi strutturali anziché risolverli”, commenta.
Nel frattempo i principali Paesi al centro dell’export globale, come Cina, Giappone e Germania, continuano a evidenziare un cedimento della domanda globale. “Il Giappone è stato il principale ‘svalutatore’ competitivo negli ultimi 12/18 mesi ma il suo export globale non cresce, anzi scende. La Germania e l’Europa sono esposte alle decisioni di geopolitica degli Stati Uniti, che hanno portato alla eliminazione del fornitore di energia a basso costo (Russia) e ora puntano a ridimensionare l’interscambio commerciale con la Cina”, spiega. Quanto a Pechino, secondo Novelli l’economia è in grave difficoltà a causa del deleverage nel settore immobiliare, per un maggiore controllo delle politiche fiscali dei governi locali e per la deglobalizzazione innescata dagli Usa. E il China Reopening è stato un tema venduto agli investitori per sostenere l’idea della ripresa globale, ma in realtà Pechino non vuole più fare la locomotiva dell’economia mondiale sul debito e spera di avviare un deleverage controllato del sistema.
Insomma, il gestore Lemanik ha pochi subbi sul fatto che ci troviamo in una situazione congiunturale dove, per diversi motivi, le principali economie del mondo affrontano problemi strutturali di lungo periodo che vengono a maturazione tutti in una volta sola, con un fardello di debito pubblico e privato accumulato a tassi a zero, per sostenere investimenti la cui redditività non è più adeguata all’attuale livello del costo del debito. “Non è ancora successo praticamente nulla, salvo una correzione dei mercati nel 2022, ma il cedimento del sistema costruito sul Qe è appena iniziato e la criticità di questo aggiustamento soft dipende dalla sua durata che, a causa della leva finanziaria accumulata in 14 anni di ‘free debt and go’, si preannuncia piuttosto lunga”, conclude.
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