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La Legge di Bilancio 2025 permette di sommare i contributi Inps a quelli accumulati nel fondo per poter uscire a 64 anni. Dipendenti, autonomi, giovani e donne: Moneyfarm ha fatto i conti
Uscire a 64 anni dal lavoro non è più una missione impossibile. La Legge di Bilancio 2025 ha reso infatti possibile sommare i contributi Inps a quelli accumulati nel fondo pensione per raggiungere la soglia d’accesso alla pensione anticipata contributiva. Un passo epocale verso l’integrazione tra il primo pilastro previdenziale e quello complementare, che rende dunque più facile a giovani e donne ma anche autonomi lasciare il lavoro prima dei 67 anni previsti dal requisito di vecchiaia. Ogni categoria però è a sé e molto dipende dalle scelte che si fanno e dalla loro lungimiranza. Ecco perchè gli esperti di Moneyfarm hanno calcolato quanto occorre accantonare per raggiungere questo traguardo a seconda delle diverse situazioni, mostrando come iniziare presto e farsi aiutare da un consulente può rivelarsi decisivo per tutti.
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Cosa prevede la normativa
Il requisito di pensione anticipata contributiva è stato introdotto nel 2012 per chi ha iniziato a lavorare a partire dal 1996. Prevede che, in caso di assegno pensionistico pari a tre volte l’assegno sociale e con almeno due decadi di contributi versati, sia possibile abbassare l’età di ritiro da 67 a 64 anni. Secondo le nuove regole, d’ora in poi si potranno però conteggiare non solo i versamenti all’Inps ma anche i contributi accumulati nel fondo pensione. Una misura pensata per incentivare la previdenza integrativa, anche se i suoi effetti di fatto cominceranno a farsi sentire quando compiranno 64 anni i lavoratori nati dopo il 1971 (che più verosimilmente avranno contributi versati integralmente post-1996). A partire dal 2030, per accedere alla pensione anticipata contributiva, sarà poi necessario un assegno pensionistico pari a 3,2 volte quello sociale: un requisito più stringente, quindi, che richiede il versamento di somme ancora più elevate durante la vita lavorativa. Per i lavoratori dipendenti, calcola Moneyfarm, anche 250 euro di stipendio aggiuntivi al mese possono fare la differenza. Ad esempio, per chi ha un reddito netto mensile di 1.650 euro, l’età di uscita va dai 65 anni e tre mesi dei cinquantenni ai 67 anni e due mesi dei trentenni. Per chi invece guadagna 1.400 euro, con il normale requisito di vecchiaia (considerando anche gli adeguamenti per la crescita dell’attesa di vita ogni due anni), i contributi versati potrebbero non bastare a lasciare il lavoro e l’uscita si sposterebbe in avanti: tra i 68 anni e sette mesi dei cinquantenni e i 70 anni e sei mesi dei trentenni. La situazione non è migliore per i lavoratori autonomi che, a parità di imponibile, versano meno contributi: qui il requisito di uscita anzitempo potrebbe essere riservato solo a chi incassa dai 1.950 euro in su, mentre sotto i 1.550 si correre il rischio di posticipare l’addio di ben tre anni.

Lavoratori dipendenti: il TFR come leva per uscire prima
È a questo punto che, sottolinea l’analisi Moneyfarm, soprattutto chi non riesce a raggiungere la soglia minima di assegno solo con l’Inps vede entrare in gioco il ponte costruito dall’ultima Legge di Bilancio. I lavoratori dipendenti, in particolare, hanno a disposizione uno strumento in più per alimentare il proprio fondo pensione e potenzialmente anticipare l’uscita senza intaccare direttamente le proprie disponibilità economiche: il Trattamento di fine rapporto. Specie per i più giovani, come 30enni e 35enni, il conferimento del TFR maturando in un fondo pensione con una linea di investimento azionaria potrebbe già da solo consentire il superamento delle cifre previste. Se poi al TFR maturando si aggiungesse quello maturato (soluzione possibile nelle aziende fino a 50 dipendenti o qualora si fosse già scelto di conferire il proprio TFR), le generazioni che potrebbero andare in pensione tre anni prima arriverebbero fino agli attuali quarantacinquenni (sempre a patto di investire in una linea azionaria).

Per i profili ai quali invece il TFR non basta, sarebbe invece necessario aggiungere contributi volontari di tasca propria: si va dai 58 euro mensili di un quarantenne che investisse ad alto rischio fino ai 568 di un cinquantenne che propendesse per una linea a basso rischio.

Per gli autonomi versamenti maggiori
Per i lavoratori autonomi, in assenza di TFR, il versamento mensile necessario per poter ambire alla pensione anticipata è sicuramente maggiore. Tuttavia, anche qui, lo studio evidenza come decisiva sia l’età a cui si inizia ad accantonare nel fondo pensione. Per un trentenne autonomo potrebbero essere infatti sufficienti 69 euro al mese investiti in una linea azionaria, contro i 94 euro di un trentacinquenne e i 157 di un quarantenne, fino ad arrivare ai 480 di un cinquantenne.

Il “valore” di essere madri
Passando alle donne, è evidente come le interruzioni di carriera legate alla maternità e il divario salariale spesso impongano alle lavoratrici un montante contributivo più basso e le espongano al rischio di non superare la soglia standard per l’accesso alla pensione anticipata contributiva. Ecco perchè quelle con uno (2,8 volte) e due o più figli (2,6 volte) è richiesto un importo minimo inferiore rispetto alle 3,2 volte l’assegno sociale previste dal 2030 per gli altri beneficiari. Grazie a questa agevolazione, con il versamento del TFR maturato e maturando tutte le lavoratrici dipendenti con almeno due figli considerate dalla simulazione di Moneyfarm riuscirebbero a raggiungere l’obiettivo di andare prima in pensione. E lo stesso accadrebbe alle dipendenti tra i 30 e i 45 anni che investissero il solo TFR maturando in una linea ad alto rischio. Il vantaggio è tangibile anche per le autonome, che dovrebbero versare contributi volontari decisamente più sostenibili, compresi tra i 22 euro al mese di una trentenne che investisse ad alto rischio e i 219 euro di una cinquantenne che scegliesse una linea a basso rischio.

Parola d’ordine: consulenza previdenziale
Come sottolinea l’investment consultant manager di Moneyfarm Davide Cominardi, la Legge di Bilancio rafforza insomma il cosiddetto secondo pilastro del sistema previdenziale in un Paese in cui la previdenza integrativa è tra i settori che più faticano ancora a decollare. Secondo gli ultimi dati della Covip, solo poco più di un lavoratore su tre (38,3%) risulta infatti iscritto a una qualche forma di pensione complementare e appena uno su quattro (27,6%) vi versa attivamente dei contributi o il proprio TFR. “Conoscere le diverse opzioni disponibili è essenziale per orientarsi e individuare la scelta più coerente con il proprio percorso professionale e personale”, spiega quindi l’esperto. Riconoscendo, però, come le norme in materia siano spesso complesse e difficili da interpretare per i non addetti ai lavori. “Poter contare su un punto di riferimento consulenziale affidabile diventa fondamentale”, conclude, “perchè aiuta non solo a chiarire dubbi e opportunità ma anche a pianificare con maggiore consapevolezza i tempi della propria vita e le risorse su cui poter contare”, conclude.
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