Pensioni pubbliche, la metà degli assegni non arriva a 2.000 euro
Oltre uno su dieci si ferma sotto i mille euro. Penalizzate le donne. Intanto nel 2023 la spesa Inps è salita dell’8,2%, a oltre 90 miliardi di euro. Diminuiscono i nuovi trattamenti
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Un pensionato su tre, il 32%, pari a circa 5 milioni e 120 mila persone, ha un assegno previdenziale inferiore a mille euro. E se si considerano solo gli importi delle prestazioni, senza integrazioni al minimo, trasferimenti e maggiorazioni, la percentuale di chi non arriva a 12 mila euro annui sale al 40%. A lanciare l’allarme sulla povertà pensionistica degli italiani è il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, che nella sua Relazione annuale punta l’attenzione anche sugli attuali stipendi. Il 23% dei lavoratori italiani, infatti, guadagna meno di 780 euro al mese, la soglia del Reddito di cittadinanza, considerando anche i part-time.
Tra le altre cose, diventa dunque sempre più urgente puntare l’attenzione sulla previdenza complementare, al fine di assicurare un futuro dignitoso agli italiani. “Un’ulteriore ragione che induce a preoccuparsi del fenomeno della povertà lavorativa di oggi – avverte Tridico – è il fatto che chi è povero lavorativamente oggi sarà un povero pensionisticamente domani”.
(“Previdenza complementare e mercato dei capitali: un connubio necessario”, è il titolo del quarto appuntamento del ciclo di seminari “Risparmio, mercato dei capitali e governo dell’impresa” organizzato dal Cnel in collaborazione con Assogestioni giovedì 14 luglio dalle ore 10.00).
Con 30 anni di contributi versati e un salario di 9 euro lordi l’ora, un lavoratore potrebbe avere una pensione a 65 anni di circa 750 euro, stima infatti l’Inps che nel suo Rapporto annuale ha ipotizzato il futuro previdenziale della generazione X (i nati tra il 1965 e il 1980) sottolineando che i più giovani dovranno lavorare in media tre anni in più rispetto ai più anziani.
Secondo l’Inps i nati nel 1977-1980, oggi quarantenni, registrano un brusco calo nei livelli di copertura e costituiscono pertanto la fascia più critica. La copertura media per gli Xers più giovani è del 66% (68% uomini 64% donne), corrispondente ad una vita attiva di 9 anni e 11 mesi nei primi 15 anni di vita lavorativa. E i lavoratori dipendenti che percepiscono meno di 9 euro lordi l’ora in Italia attualmente sono 3,3 milioni, il 23,3% del totale. Con un reddito reale inferiore rispetto a due anni fa a causa dell’inflazione. Per questo l’aumento dei prezzi, stando ai tecnici dell’Istituto, sarà determinante per definire la soglia del salario minimo.
Quanto al lavoro, grazie agli aiuti del governo (pari a circa 60 miliardi per 15,7 milioni di italiani) si è evitato una riduzione dei redditi del 55% in più. E l’Italia post Covid ha tenuto e può vantare ora un tasso di occupazione record al 60% (inferiore però al target Ue del 70%), ma più povera, soprattutto per le donne.
La retribuzione media lorda pro capite nel 2021 risulta pari a 24.097 euro, compresi i contributi a carico del dipendente, un valore ancora inferiore a quello del 2019 (-0,2%) legato al fatto che la componente part year pesa in maniera più importante a causa della pandemia. Per le donne la retribuzione è più bassa in media del 25% rispetto a quella degli uomini anche a causa del part time e del lavoro solo per una parte dell’anno: in media nel 2021 è stata pari a 20.415 euro. Al netto degli effetti dovuti a queste caratteristiche, il gap scende significativamente: considerando le dipendenti full time full year e a tempo indeterminato scende infatti all’8% sul totale e all’11% rispetto ai maschi (i valori infatti sono di 35.477 euro per le donne, 38.686 euro per il totale maschi e femmine, 39.973 per i maschi).
Il monte dei redditi e delle retribuzioni, corrispondente all’imponibile previdenziale, risulta assestato nel 2021 sopra i 600 miliardi, in modesto incremento in termini nominali quindi rispetto al valore del 2019 (598,2 miliardi). In valore reale, depurato dall’inflazione, i redditi sono però in calo. In particolare risulta aumentato, rispetto al 2019, il monte retributivo dei dipendenti (quasi quattro miliardi in più per l’insieme dei dipendenti privati e poco meno di due miliardi in più per i dipendenti pubblici) mentre il monte dei redditi dei lavoratori autonomi risulta diminuito di oltre 5 miliardi (-3,8%, sempre rispetto al 2019) perché nel 2021 non vi è stato alcun recupero. E’ significativa invece la crescita per i parasubordinati con quasi due miliardi in più sul 2019. Se si tiene conto dell’inflazione (2,0% tra 2019 e 2021), il livello complessivo dei redditi e delle retribuzioni in termini reali risulta però ancora inferiore a quello 2019. Anche sul monte contributivo si registra un pieno recupero in termini nominali del livello del 2019: nel 2020 le entrate contributive si erano fermate a 204,1 miliardi (12 in meno rispetto al 2019) ma nel 2021 è stato ripristinato il livello di 216,1 miliardi.
I pensionati a fine dicembre 2021 erano 16 milioni per un importo lordo complessivo di quasi 312 miliardi (+1,55% sul 2020). Sebbene le donne siano il 52% del totale (8,3 milioni a fronte di 7,7 milioni di uomini), percepiscono solo il 44% dei redditi pensionistici ovvero 137 miliardi di euro contro i 175 miliardi dei maschi. L’importo medio mensile dei redditi percepiti dagli uomini, si legge nel Rapporto Inps “è superiore a quello delle donne del 37%”. Se in media i pensionati percepiscono 1.620 euro al mese le donne hanno 1.374 euro, oltre 500 in meno degli uomini (1.884).
L’aumento dell’inflazione nel 2022 con una crescita dei prezzi che a fine anno potrebbe assestarsi sull’8% potrebbe pesare sulla spesa per pensioni dell’Inps nel 2023 per 24 miliardi, avvertono i tecnici dell’Istituto. Inoltre che sulla base dei dati al primo gennaio 2020 (quindi senza calcolare lo shock della pandemia e della guerra) il disavanzo patrimoniale dell’Istituto potrebbe arrivare a 92 miliardi nel 2029. “Non esiste un problema di sostenibilità, ma c’è un warning. Ci vuole crescita economica e produttività per un sistema in equilibrio”, mettono in guardia dall’Inps.
“Abbiamo bisogno di più lavoro e di lavoro meglio retribuito se vogliamo assicurare al Paese la sostenibilità del suo sistema di welfare – conclude Tridico -. Per l’equilibrio del sistema previdenziale, occorre garantire la sostenibilità della spesa ma anche l’allargamento della base contributiva sia in termini di recupero del sommerso che di incremento della massa retributiva per i lavoratori regolari”.
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