La guerra del petrolio minaccia i dividendi delle major
Il barile scenderà sotto i 30 dollari, per poi tornare a quota 40-50 entro fine 2021. E Rsda, Eni, Total e Bp saranno costrette a tagliare i payout. La view di Banor Sim
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Continua la discesa agli inferi del petrolio sulla scia della guerra dei prezzi tra Arabia Saudita e Russia. E il Brent oggi segna un ulteriore calo del 3%, a 27,9 dollari, sui minimi dal 2001. Ma forse al Cremlino qualcosa si muove: il portavoce di Vladimir Putin ha infatti dichiarato che Mosca sta guardando con grande attenzione ai prezzi del barile, nell’aspettativa che ci possa essere una risalita.
Intanto, la spaccatura in seno all’Opec+ aggiunge panico su panico, con i mercati preoccupati dall’epidemia di coronavirus e dalle reazioni politiche. “Quel che è peggio è che per gli investitori ci sono meno dati e meno informazioni pubbliche da cui prevedere la politica petrolifera saudita (o russa)”, fa notare Elliot Hentov, head of policy and research di State Street Global Advisors, che prova quindi a fare il punto della situazione evidenziando le implicazioni chiave.
Innanzitutto l’esperto sottolinea come l’azione saudita non implica semplicemente un aumento della produzione, con una capacità inutilizzata stimata di poco meno di due milioni di barili al giorno (mbd). “Saudi Aramco ha inoltre annunciato obiettivi di approvvigionamento totale che includono lo svuotamento di alcuni dei suoi inventari globali – aggiunge -. Si prevede che anche altri paesi del Golfo utilizzeranno la loro capacità inutilizzata, quindi, insieme all’aumento marginale della Russia, il mondo potrebbe trovarsi a fronte di oltre 3 milioni di barili al giorno di forniture extra a partire da aprile. Ciò dovrebbe esercitare una continua pressione al ribasso sui prezzi del petrolio, in particolare dal momento che molte economie chiave subiranno contemporaneamente il picco della domanda di Covid-19”.
Analizzando i dati, Hentov ritiene dunque probabile che in futuro la produzione saudita supererà i 12 milioni di barili al giorno, rendendola per la prima volta il secondo maggiore produttore di petrolio al mondo dopo i tentativi dell’Opec+ di fine 2016. “L’obiettivo saudita è principalmente quello di indurre i russi a tornare al tavolo delle trattative, rilanciando seriamente l’Opec+ – spiega -. Questa è una scommessa importante, dato che la posizione fiscale della Russia (prezzo di pareggio fiscale relativamente più basso, necessario per soddisfare le esigenze di spesa di un paese dipendente dal petrolio, e un tasso di cambio variabile che attutisca il calo del prezzo del petrolio) è migliore di quella dell’Arabia Saudita. Tuttavia entrambi i produttori di petrolio condividono l’interesse a limitare l’estensione di questa guerra dei prezzi, soprattutto perché i russi non possono compensare il prezzo del petrolio più basso con una maggiore quota di mercato”.
Questi eventi potrebbero anche essere una sfida intenzionale per lo shale americano? Improbabile, a detta dell’esperto. Almeno dal punto di vista dell’Arabia Saudita, data l’esperienza del 2014-2016, quando i prezzi del petrolio erano crollati in modo simile. “Non solo i mercati, ma anche attenti osservatori del petrolio sono stati colti alla sprovvista dalle ricadute – afferma -. È ragionevole pensare che la Russia abbia ritenuto di poter continuare il trend degli ultimi anni, in cui quasi tutti i tagli alla produzione sono stati assorbiti dall’Arabia Saudita. Ora Riyadh ha messo Mosca sotto la lente, anche se la Russia spera chiaramente di colpire anche i produttori statunitensi”.
Il calo del prezzo del petrolio è poi accompagnato da un’estrema inversione di tendenza delle condizioni finanziarie. “A nostro avviso – chiarisce -, la produzione statunitense potrebbe diminuire nei prossimi mesi, facendo pressione sui produttori di shale, ma nel medio termine dovrebbe ritornare ai valori medi. Noi vediamo come obiettivo un prezzo del petrolio necessario per la redditività dello shale, che tende ad essere inferiore al prezzo del petrolio in pareggio fiscale della Russia o dell’Arabia Saudita (rispettivamente circa 42 e 75 dollari)”.
E Hentov non ha dubbi: la sfida più grande degli Stati Uniti è come affrontare la crisi dell’industria petrolifera di quest’anno. “I numeri mostrano quanto l’ottimismo dell’industria manifatturiera statunitense sia strettamente correlato ai prezzi del petrolio. L’industria manifatturiera stava appena uscendo dalla guerra commerciale del 2019 quando Covid-19 ha colpito. La perdita della domanda dell’industria petrolifera porterà ulteriore sofferenza ai produttori statunitensi. Dato che si trovano in modo sproporzionato negli swing states statunitensi, l’effetto politico sarà amplificato. A nostro avviso Donald Trump vorrà compensare questa dinamica e potrebbe quindi prendere in considerazione azioni politiche più sperimentali” è la sua tesi.
Che significa questo per gli investitori? Per l’esperto, oltre all’incertezza sull’epidemia e le reazioni di politica monetaria in corso, i mercati potrebbero ora avere la necessità di affrontare anche i rischi politici, e questo potrebbe contribuire ad un’elevata volatilità tra le varie asset class fino a quando il picco dell’epidemia non sarà prevedibile per gli operatori di mercato. “Inoltre c’è un notevole potenziale per i rally di mercato sulla scia delle sorprese di politica monetaria, a mano a mano che i governi reagiscono al peggioramento delle condizioni economiche. Per quanto riguarda il petrolio, un riavvicinamento tra Arabia Saudita e Russia rimane lo scenario più probabile, anche se potrebbe richiedere alcuni mesi. Inoltre non ci aspettiamo una ripresa simmetrica del prezzo del petrolio, ma solo un miglioramento parziale a fronte di un ritorno incrementale della domanda globale”, conclude.