Sul barile pesano anche le scorte Usa e la timida ripresa cinese. Secondo gli asset manager, niente allarme per l’inflazione. Ma alcuni aspetti vanno monitorati
L’escalation in Medio Oriente, dopo l’esplosione dell’ospedale di Gaza, riporta il petrolio sotto la lente dei mercati. Nel giorno della vista in Israele del presidente americano, Joe Biden, la paura che il conflitto con Hamas possa estendersi anche ad altri Paesi della regione e causare interruzioni delle forniture ha infatti fatto schizzare i prezzi del barile. Già nei primi scambi europei di giornata, sia il Brent sia il Wti hanno guadagnato oltre due dollari e toccando i massimi da due settimane. Per i gestori torna dunque l’allarme greggio, seppur ancora moderato, con possibili effetti negativi sull’inflazione ma anche sui tassi e sulla crescita economica.
Le tensioni geopolitiche in Medio Oriente rappresentano certamente il primo elemento monitorato dagli investitori. Un conflitto prolungato tra Israele e Hamas rischia infatti, secondo gli analisti, di spingere i futures del Brent oltre quota 100 dollari perché fa aumentare le probabilità che la guerra si espanda e coinvolga direttamente l’Iran.A sostenere le quotazioni ci sono però anche altri due fattori: il calo delle scorte statunitensi e il Pil oltre le attese della Cina. Le riserve di greggio americane sono infatti diminuite di 4,4 milioni di barili nella settimana al 13 ottobre, decisamente dei 300mila barili messi in conto dagli esperti, mentre il prodotto interno lordo di Pechino ha inviato inaspettati segnali di ripresa. Grazie agli stimoli del governo, il dato del terzo trimestre è aumentato del 4,9%, più dell’atteso 4,4%, rendendo plausibile l’obiettivo di una crescita del 5% per il 2023. Una cifra che fa il paio con l’output industriale di settembre, salito del 4,5% (4,3% il consensus), e con le vendite al dettaglio, cresciute del 5,5% contro una previsione di +4,9%.
La view dei gestori
Anche se il petrolio torna tra i sorvegliati speciali, i gestori sono convinti che non sia ancora il momento di allarmarsi. La minaccia immediata di un aumento dell’inflazione complessiva a causa del rincaro dell’energia non va infatti sopravvalutata. “La nostra analisi mostra che questa componente rappresenta solo l’1,7% dell’indice dei prezzi al consumo core”, spiega David Rees, senior emerging markets economist di Schroders, segnalando che l’impatto diretto di un aumento del barile sul carovita sottostante sarebbe più contenuto delle attese.
Per Flora Dishnica, investment manager di Pictet Am, l’andamento delle quotazioni desta preoccupazione in merito ai prezzi. “L’accelerazione degli ultimi mesi è stata prevalentemente guidata dall’offerta, con considerazioni di natura geopolitica che sembravano in via di indirizzamento tra Usa e Arabia Saudita. Dati gli ultimi sviluppi del Medio Oriente, questo aspetto potrebbe infastidire ulteriormente il mercato”, avverte. Ecco perchè, a suo parere, le valutazioni dell’obbligazionario risultano molto interessanti, “soprattutto dopo un movimento alquanto esagerato, in termini reali, a livelli veramente lontani da qualsiasi stima mai elaborata da fonti ufficiali o dal mercato”. Tutte considerazioni che, rimarca, rendono l’asset class “un valido alleato per navigare i mesi finali dell’anno”.
François Rimeu, senior strategist di La Française Am
Per François Rimeu, strategist di La Française Am, l’impennata del barile non è una buona notizia per la crescita globale. E renderà anche più difficile la traiettoria dell’inflazione a breve termine, “con la fine degli effetti base negativi e potenziali effetti di secondo livello che rimangono difficili da prevedere”, precisa. “I rincari di dollaro e del petrolio amplificano ulteriormente le attuali incertezze sul ritorno dei prezzi agli obiettivi delle banche centrali”, spiega l’esperto. Che predica “cautela generale”.
Norman Villamin, group chief strategist di Ubp
Dal punto di vista degli investimenti, Norman Villamin ritiene che gli investitori debbano considerare due elementi per valutare il rischio di un nuovo shock energetico: il coinvolgimento dell’Iran nella pianificazione e preparazione degli attacchi oppure il tentativo di Hezbollah, sostenuto da Teheran, di aprire un secondo fronte. Questo, secondo il group chief strategistdi Ubp, comporterebbe infatti nuove restrizioni da parte di Washington all’export di petrolio iraniano e la riluttanza dell’Arabia Saudita a sostituirne l’offerta sui mercati mondiali. “Per gli investitori che cercano di gestire in modo proattivo questi potenziali esiti, le posizioni di liquidità in dollari ad alto rendimento e le allocazioni in oro esistenti dovrebbero fornire protezione nel caso di uno scenario da shock petrolifero. Nell’azionario, un relativo riparo potrebbe venire dai titoli energetici”, conclude quindi l’esperto.
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