Come cambiano i Pir?
Si alza il velo sulla bozza del decreto attuativo dei nuovi Piani individuali di risparmio (Pir). Confermato il cambio di rotta sostanziale per il mercato
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La gestazione è stata lunga, ma alla fine il decreto attuativo che rivede la normativa sui Piani individuali di risparmio ha visto la luce, accendendo immediatamente lo scontro istituzionale. Il provvedimento, composto da sette articoli e pubblicato in Gazzetta Ufficiale, stabilisce che le agevolazioni fiscali siano collegate a una quota d’investimenti dedicati a start-up e Pmi innovative e introduce l’obbligo per i fondi comuni di nuova costituzione di investire il 3,5% della raccolta in Pmi, che possono essere quotate oppure non quotate, e in venture capital.
La disciplina attuativa prevede che la quota del 70% del valore complessivo del piano di risparmio a lungo termine costituito dall’investitore privato indipendente, deve essere investita per almeno il 5% del valore complessivo in strumenti finanziari, ammessi alle negoziazioni sui sistemi multilaterali di negoziazione, emessi da Pmi ammissibili; per almeno il 5% in quote o azioni di fondi per il venture capital, o di fondi di fondi per il venture capital, ovvero organismi di investimento collettivo del risparmio (Oicr) che investono almeno il 70 per cento dell’attivo nelle predette imprese. A tal fine, sono stati considerati ammissibili gli investimenti in equity e quasi-equity. Prevista anche la possibilità di acquistare quote o azioni di una Pmi non quotata da un investitore precedente solo in combinazione con un apporto di nuovo capitale pari almeno al 50% dell’ammontare complessivo dell’investimento.
Nel decreto è stabilito anche che per Pmi si intendono le imprese che occupano meno di 250 persone, il cui fatturato annuo non supera i 50 milioni di euro e il cui totale di bilancio annuo non supera i 43 milioni di euro. Sul fronte del limite agli aiuti per il finanziamento del rischio è previsto che ciascuna Pmi emittente gli strumenti finanziari ammessi alle negoziazioni sui sistemi multilaterali di negoziazione e ciascuna Pmi i cui strumenti finanziari sono oggetto di investimento da parte dei fondi per il venture capital non può ricevere un ammontare complessivo di risorse finanziarie a titolo di qualsiasi misura di aiuto per il finanziamento del rischio superiore a 15 milioni di euro. Il Ministero dello sviluppo economico, decorsi sei mesi dalla data di pubblicazione del decreto, provvederà al “monitoraggio degli effetti prodotti dalla misura sull’entità della raccolta e sul numero delle negoziazioni, anche al fine di valutare l’opportunità di interventi normativi ulteriori”. Le nuove disposizioni si applicheranno ai Pir costituiti a decorrere dal 1° gennaio 2019, mentre per quelli costituiti fino al 2018 continuerà ad applicarsi la disciplina pre-vigente con la possibilità di adeguamento del portafoglio di investimento alla nuova disciplina.
“Siamo a disposizione per l’apertura immediata di un tavolo di confronto e lavoro”, ha commentato in una nota il presidente dell’Associazione Italiana del Private Equity, Venture Capital e Private Debit (Aifi), Innocenzo Cipolletta. “L’associazione – ha aggiunto – vuole supportare l’attività dei gestori Pir nel lancio dei nuovi prodotti che potranno essere strumento di supporto alla crescita dell’innovazione in Italia”.
Solleva invece dei dubbi Bankitalia. Le nuove regole “aumentano il profilo di rischio dei Pir, strumenti di risparmio rivolti alle famiglie. Inoltre – scrive via Nazionale nel Rapporto sulla stabilità finanziaria – possono rendere più difficile il rispetto dei requisiti prudenziali di diversificazione e di liquidità previsti per i fondi Pir esistenti, tutti costituiti nella forma di fondi aperti”. Ma non basta. “Aumenta il rischio che i fondi registrino perdite derivanti da vendite di attività in mercati poco liquidi a fronte di episodi di forte volatilità dei corsi che inducano i sottoscrittori a liquidare l’investimento prima di conseguire il beneficio fiscale. Tali perdite potrebbero riflettersi negativamente sui risultati dei Pir e sulla reputazione degli intermediari che li promuovono. Proprio al fine di limitare questi rischi gli investimenti dei fondi aperti italiani in titoli di Pmi italiane e in fondi di venture capital sono attualmente pressoché nulli”.
La Banca d’Italia non nasconde neppure che le nuove norme “possono favorire l’emissione di titoli da parte delle imprese di minore dimensione e la diversificazione delle loro fonti di finanziamento” tuttavia si tratta di titoli illiquidi con tutti i rischi conseguenti per i fondi Pir che dovrebbero metterli in portafoglio. La fotografia scattata dagli economisti della Banca d’Italia e’ la seguente: “Alla fine del 2018 all’Alternative Investment Market (Aim) di Borsa italiana erano quotati poco più di 60 titoli emessi da Pmi italiane non finanziarie, con una capitalizzazione complessiva di circa 3 miliardi e un flottante medio del 30 per cento. Lo scorso anno quasi la meta’ di questi titoli non ha registrato scambi per almeno un quarto dei giorni di contrattazione”. Lo scenario non cambio guardando la fotografia del venture capital. “In Italia operano inoltre poco piu’ di 30 fondi di venture capital di diritto italiano con un patrimonio complessivo di circa 500 milioni e solo alcuni di questi hanno caratteristiche in linea con i requisiti della nuova normativa sui Pir”. I fondi di venture capital – prosegue l’analisi della Banca d’Italia – sono strumenti sostanzialmente illiquidi. Di norma riservati a clientela professionale, sono istituiti obbligatoriamente in forma chiusa e non ammettono pertanto la possibilità di rimborsi anticipati; la valutazione del loro portafoglio avviene di norma solo semestralmente. Per i fondi aperti armonizzati, che investono in attività più liquide e possono essere commercializzati anche alla clientela al dettaglio, e’ prescritta invece una periodicità almeno quindicinale sia del calcolo del patrimonio netto, sia del rimborso delle quote ai sottoscrittori”.
