Revisione direttiva disclosure non finanziaria. Verso un nuovo paradigma Esg
La risposta di Assogestioni alla consultazione Ue per un mutamento degli obblighi informativi delle emittenti
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Le pmi italiane quotate comunicano correttamente le metriche Esg e i risultati ottenuti in tale ambito, ma sono ancora troppo poche quelle che dispongono di un Csr manager. Non solo: a fronte di una performance superiore del 76,6%, più del triplo rispetto alle blue chip e alle altre small e mid cap, restano ambiti in cui solo poche aziende sono del tutto trasparenti, cosa che può alimentare perplessità di investitori e stakeholder sull’effettivo impegno nei confronti della sostenibilità.
Sono questi i risultati principali della ricerca di Intermonte Sim, in collaborazione con la School of Management del Politecnico di Milano, che si è appunto concentrata sull’analisi della rendicontazione dei dati non finanziari di un campione di 21 società mid e small cap italiane non finanziarie, quotate sull’MTA, per valutarne la completezza e l’efficacia della comunicazione in ambito Esg e i risultati ottenuti nel corso del triennio 2017-2019.
Ebbene: dai dati emerge che le società hanno divulgato in media il 73,8% delle informazioni considerate rilevanti. Grande attenzione viene data soprattutto alla componente Social (comunicato in media l’88,0% dei parametri mappabili), seguita da quella Environmental (70,9%) e da quella di Governance (67,2%). In generale, considerando le elevate percentuali, c’è una grande attenzione nel divulgare la maggior quantità di dati e informazioni possibili in merito ai propri piani e alle proprie strategie di sostenibilità.
C’è però anche un rovescio della medaglia: la ricerca evidenzia infatti anche ambiti in cui solo poche aziende hanno voluto o potuto essere trasparenti e importanti aree di miglioramento per il futuro. In ambito ambientale, solo il 33,3% del campione ha stabilito obiettivi quantitativi sulla riduzione delle emissioni di CO2 e solo il 23,8% li ha fissati sull’efficientamento energetico. Un aspetto, questo, che potrebbe sollevare dubbi riguardo all’effettiva implementazione delle iniziative di sostenibilità che, senza dei chiari parametri con i quali misurarne la bontà, potrebbero essere percepite esclusivamente come tentativi di greenwashing. Per quanto riguarda la componente governance, poi, solo il 38,1% del campione ha effettivamente legato le proprie politiche di incentivazione e remunerazione anche alle variabili Esg; mentre sul piano social, appena un terzo delle società analizzate dispone di un Csr manager preposto per la supervisione e l’implementazione dei piani di sostenibilità.
Insomma, la strada appare ancora lunga: nonostante molte società decidano di implementare delle strategie Esg, mancano ancora dei veri e propri ruoli manageriali e di collegamento predisposti con lo scopo di verificarne l’andamento con frequenze ottimali, lasciando questo compito perlopiù al consiglio di amministrazione. Nella maggior parte dei casi, inoltre, sembrerebbero mancare dei veri e propri incentivi volti a remunerare i membri del board e i manager a seconda delle performance ambientali e sociali raggiunte. Questo potrebbe alimentare perplessità di investitori e stakeholder in merito all’effettivo impegno nei confronti della sostenibilità.
Malgrado, quindi, le società stiano diventando virtuose e trasparenti relativamente alla quantità e alla qualità dei dati divulgati all’esterno, hanno invece ancora difficoltà a legare tali iniziative a obiettivi e remunerazioni interne e più in generale alla strategia aziendale di lungo periodo.
Altro dato positivo della ricerca è che le società analizzate hanno performato molto meglio del mercato nell’arco del triennio: il valore mediano della performance è +76,6%, più del triplo rispetto alle blue chip e alle altre small e mid cap. Considerando che le imprese selezionate sono quelle che hanno rilasciato più informazioni in ambito Esg, ciò può rappresentare un elemento distintivo rispetto all’attenzione che il mercato ha riservato in termini di premio di performance. Si può inoltre apprezzare la presenza significativa nel capitale delle aziende del campione di investitori istituzionali e fondi: in media il 18,1% del capitale totale è in mano a questi soggetti mentre il valore mediano è il 17%. Moltissimi studi accademici, d’altronde, dimostrano l’impatto positivo di una efficace rendicontazione non finanziaria per un’impresa, con l’effetto di generare rendimenti differenziali positivi per gli investitori (es. riduzione del costo del capitale, migliore attrattività per investitori e manager, riduzione del rischio alla reputazione, efficienza sui costi operativi, riduzione delle asimmetrie informative ecc.).
L’analisi entra poi nel merito dei progressi dichiarati dalle imprese nei tre ambiti di attenzione nel corso del triennio preso in considerazione. La capacità delle aziende di migliorare nel tempo le proprie policy (soprattutto sociali e di governance) è essenziale per il successo nel lungo periodo. Sicuramente degno di nota è guardare all’evoluzione, purtroppo non molto positiva, della presenza femminile in azienda e nei cda: nel 2019 la maggioranza delle società analizzate (15 su 21) ha mantenuto una percentuale di forza lavoro di genere femminile inferiore al 25%; nel periodo 2017-2019, inoltre, tutte le aziende hanno modificato (in maniera più o meno consistente) la composizione del proprio personale, ma non sempre a favore della parità di genere (10 su 21 hanno aumentato il numero di uomini in azienda); per quanto riguarda la gender diversity nei consigli di amministrazione, a fine 2019, questi rimangono ancora a maggioranza prevalentemente maschile per quasi tutte le società analizzate (solamente 2 su 21 hanno raggiunto o superato la quota del 50% di consiglieri di genere femminile); nonostante, quindi, il 95,2% delle aziende possegga una politica sulla discriminazione di genere e sulla tutela delle pari opportunità, dati alla mano non è evidente uno sforzo corale in tale direzione.
In conclusione, i ricercatori hanno quindi classificato le aziende in tre diversi cluster, a seconda di specifici comportamenti differenziati: le aziende ‘Esperte’ (5 su 21: spesso quelle di dimensioni maggiori e quotate da più tempo) caratterizzate da un livello molto buono di completezza dei dati a vasto raggio grazie al forte commitment del vertice e che hanno implementato azioni di concreto miglioramento sui Kpi Eeg con risultati misurabili; le ‘Ambiziose’ (7 su 21: spesso quelle entrate in Borsa più recentemente) che in poco tempo hanno raggiunto discreti livelli di efficacia nella rendicontazione, limitati però ad alcuni contesti specifici; mostrano un buon livello di commitment, ma devono misurarsi con organizzazioni meno mature e meno esperte, che devono necessariamente ragionare per priorità. Sono però ben consce di quali possano essere gli ambiti di miglioramento futuri e li implementeranno a breve; le ‘Gregarie’ (9 su 21) ovvero le aziende del campione che finora sono state meno complete e dettagliate nella comunicazione di tutte le variabili materiali; il gap può essere però recuperato attraverso un’azione di benchmarking rispetto alle best practice implementate dalle altre imprese più virtuose del campione.
Visti i numerosi appuntamenti normativi previsti per il 2021 e 2022 cui il mercato finanziario dovrà adattarsi e che coinvolgono temi centrali quali la tassonomia delle attività sostenibili, i servizi finanziari e lo standard che qualifica i fondi e i titoli finanziari orientati alla sostenibilità, sarà cruciale per le imprese non farsi trovare impreparate. Per le Pmi in particolare sarà fondamentale prepararsi con largo anticipo alle sfide future legate alla diffusione delle informazioni non finanziarie: secondo i ricercatori, chi riuscirà ad anticipare proattivamente l’evoluzione normativa godrà di un vantaggio competitivo rispetto agli altri, in quanto sempre di più capitali e risorse sul mercato saranno vincolati ad essere investiti secondo criteri Esg.
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