Indagine Moneyfarm: appena il 22% di quanto accumulato dai lavoratori è investito nella previdenza integrativa, il resto è rimasto in azienda. Colpa della disinformazione
Nonostante l’85% degli italiani sia ben consapevole dei vantaggi che offre l’investire il Trattamento di fine rapporto in una forma di previdenza integrativa, appena un terzo ha effettivamente destinato il suo TFR ad un fondo pensione. Lo rivela un’indagine di Moneyfarm che dimostra, ancora una volta, come per i risparmiatori del nostro Paese passare dalla teoria alla pratica in materia di pianificazione finanziaria sia molto complicato. E la motivazione è sempre la stessa: si tende a rimandare a causa delle scarse conoscenze o di convinzioni errate.
Alla previdenza integrativa solo il 22% del TFR degli italiani
I numeri parlano chiaro: dal 2007 al 2023 soltanto il 22% del totale del TFR accumulato, pari a circa 97 miliardi, è stato conferito a una forma di previdenza integrativa. Il resto è rimasto in azienda: circa 98 miliardi sono stati destinati al Fondo di Tesoreria dell’Inps (per le aziende con più di 50 dipendenti), mentre 242 miliardi si trovano nei bilanci o nel circolante delle imprese con meno di 50 dipendenti. Un vero e proprio tesoretto che i lavoratori potrebbero investire per andare a integrare l’assegno pensionistico pubblico.
Pesa la disinformazione
Solo che non lo sanno. Alla base della scelta di tenere i soldi in azienda, il campione intervistato da Moneyfarm crede infatti vi sia soprattutto un problema di disinformazione. Secondo il 39% dei rispondenti molti lavoratori dipendenti semplicemente non sanno di poter conferire il TFR a un fondo negoziale di categoria, a un fondo aperto o ad un PIP. Altro tema è quello della flessibilità, con quasi un quarto degli intervistati che vede il Trattamento di fine rapporto in azienda come più liquido e flessibile.
Andrea Rocchetti, global head of investment advisory di Moneyfarm
“È vero che lasciando il TFR in azienda è possibile riscattarne il 100% in caso di licenziamento o di cambio di impiego, mentre destinandolo alla previdenza complementare questo è possibile solo dopo quattro anni di disoccupazione. Tuttavia ad ogni cambio di occupazione si perde almeno il 23%”, spiega Andrea Rocchetti, head of investment advisory di Moneyfarm. Al momento della liquidazione, infatti, questi soldi vengono tassati in funzione delle aliquote Irpef (dal 23% al 43%). “Il TFR destinato alla previdenza complementare, invece, ‘segue’ il lavoratore a ogni cambio di lavoro, senza essere tassato nell’immediato, con un’aliquota finale, al momento della pensione, che varia dal 9% al 15%, a seconda degli anni di permanenza nella previdenza integrativa”, sottolinea l’esperto. Non solo. Rocchetti chiarisce anche che mentre l’anticipazione del TFR lasciato in azienda può essere richiesta soltanto una volta nell’arco dell’intero rapporto di lavoro, con un massimale annuo, con la previdenza integrativa non ci sono limiti alle domande di anticipazione. Queste possono infatti essere inoltrate per le spese sanitarie (fino al 75% del totale accantonato in ogni momento), per l’acquisto o la ristrutturazione della prima casa (fino al 75% del totale dopo otto anni di versamenti), o per qualsiasi altro motivo (fino al 30% del totale trascorsi otto anni).
Dalla sicurezza ai rendimenti
Altro tema interessante che emerge dal sondaggio riguarda la sicurezza: la maggioranza dei risparmiatori (59%) ritiene che il Trattamento di fine rapporto investito in un fondo pensione sia più sicuro rispetto a quello lasciato in azienda, soprattutto se si tratta di una piccola realtà con meno di 50 dipendenti. Rocchetti ricorda che quest’ultimo, al momento del riscatto, verrà rivalutato in misura prestabilita ad un tasso fisso dell’1,5%, a cui si somma il 75% del tasso di inflazione, mentre quando si investe in un fondo pensione il rendimento dipende sempre dall’andamento dei mercati finanziari.
“Guardando agli ultimi dieci anni e nove mesi, il TFR lasciato in azienda si è rivalutato in media del +2,3%, mentre quello investito in un Piano Individuale Pensionistico con una linea azionaria ha reso una media del +4,8%, una forbice di più del doppio”, fa notare l’esperto. Aggiungendo che, al netto di costi e fiscalità, anche in uno scenario di elevata inflazione media (3%), “lasciare il TFR in azienda ha un costo per gli anni della pensione, con differenze che per i più giovani possono arrivare all’83% di ricchezza in meno”. Per fare un esempio, argomenta il report Moneyfarm, un quarantenne dipendente, con un reddito di duemila euro netti, potrebbe attendersi 57.838 euro dal TFR lasciato in azienda, mentre, conferendolo a una forma di previdenza integrativa, potrebbe ricevere tra i 60.525 euro con una linea a basso rischio (obbligazionaria) e i 92.982 euro con una linea ad alto rischio (azionaria). Un delta di ben 35.144 euro.
Attualmente, in Italia solo un dipendente su tre e un lavoratore autonomo su cinque sono iscritti a una qualche forma di previdenza integrativa. Senza contare i 2,6 milioni di iscritti ‘silenti’, che hanno cioè smesso di effettuare versamenti. “Il maturato medio in un fondo pensione va dai 13.860 euro dei PIP fino ai 17.420 euro dei Fondi Nazionali di categoria, decisamente troppo poco per riuscire a integrare con solidità l’assegno pensionistico di base”, avverte Rocchetti. Ne deriva che il TFR, almeno per i dipendenti, può svolgere un ruolo decisivo dal momento che si tratta di risorse che non pesano direttamente sulle tasche dei lavoratori, ma che possono essere investite e messe a frutto in vista degli anni della pensione. “È fondamentale agire il prima possibile, destinando il TFR alla previdenza integrativa fin dalla prima occupazione, in modo da poter accrescere il capitale in un orizzonte di lungo termine, attraverso soluzioni di investimento diversificate e a costi contenuti”, conclude quindi l’esperto.
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