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Secondo Maggiani (Carbonsink) le aziende accelerano sulla transizione verde grazie all’attivismo degli investitori istituzionali e la loro attività di engagement
La transizione ecologica occupa un posto nelle agende di tutti i principali attori economici, pubblici e privati. Non tutti, però, possono contare sulla stessa velocità d’azione e flessibilità. I tempi dei policy maker sono spesso dilatati a causa del bisogno di dover bilanciare più interessi e parti in gioco. Nel privato, invece, emittenti e investitori spesso si trovano allineati con i primi che accelerano sulla transizione verde grazie all’attivismo dei secondi e la loro attività di engagement.
A pochi mesi dalla prossima conferenza per il clima (la COP26 di Glasgow, 1-12 novembre 2021) facciamo luce con Andrea Maggiani, managing director di Carbonsink, sul ruolo del settore privato in questo scenario.
Quali sono i rischi verso cui le aziende sono esposte dal punto di vista climatico e della transizione verso fonti di energia alternativa?
Oggi le aziende private si trovano di fronte a due tipi di rischi: quelli climatici fisici, derivanti da eventi naturali ma che hanno un impatto economico diretto (terremoti, alluvioni, pandemie) e i rischi di transizione, derivanti dalla conversione del proprio business. Carbonsink aiuta gli imprenditori privati nel comprendere verso quale dei due aspetti l’azienda è più esposta e poi attuare misure per bilanciare entrambi i tipi di rischio.
In base alla vostra esperienza quale fra i due tipi di rischi che ha menzionato è oggi quello verso cui le imprese sono più sensibili?
Spesso i rischi di transizione spaventano di più, in particolar modo in Italia perché vengono percepiti come collegati ad una maggior burocrazia o a maggiori obblighi normativi. Per esempio, gli operatori di settori energy intensive, coinvolti nel sistema europeo di scambio EU ETS, si trovano da anni a fronteggiare le oscillazioni di prezzo delle quote di emissioni di CO2. Inoltre, in un paese come l’Italia i rischi catastrofali sono ancora poco avvertiti. Chiaramente dipende anche dai settori, ci sono ad esempio ecosistemi come quello delle filiere agricole dove è importantissimo tutelarsi dai rischi di tipo fisico. Nel settore delle utilities, per esempio, gli effetti del cambiamento climatico cominciano ad avere degli impatti significativi sui ricavi delle aziende.
Che impatto sta avendo il Coronavirus sui bilanci e sulla sensibilità dei privati?
Il Covid ha accelerato i processi aziendali di transizione verso nuovi modelli, che vedono anche la sostenibilità tra i pilastri fondamentali. Se qualche anno fa i rischi pandemici venivano considerati poco dai risk manager, oggi aumenta la sensibilità verso questi aspetti poiché è più chiara a tutti la correlazione fra la qualità dell’ambiente in cui viviamo con la nascita e propagazione di possibili epidemie.
Dove sono le imprese oggi?
Gli emittenti oggi si trovano di fronte a un grande cambio di paradigma dovuto a due forti spinte. Una proviene dall’ambito normativo mentre l’altra viene dall’interno, grazie all’attivismo dei grandi investitori. I nuovi regolamenti europei e le norme su una tassonomia condivisa aiutano senz’altro il settore ad avere idee e obiettivi più chiari e condivisi, ma il grosso del lavoro lo stanno facendo gli attori della finanza con la loro attività di engagement. Grandi investitori istituzionali come ad esempio BlackRock, ma non solo, stanno spingendo tantissime aziende a muoversi nella direzione di una sostenibilità a 360° del proprio business. Così le aziende non vivono questo processo come una sorta di imposizione dall’alto, ma lo capiscono e lo condividono come un passo necessario per la sopravvivenza del business sul lungo termine.
Quali sono i settori in cui questo processo è più avanzato?
Parlerei di settori più e meno esposti ai rischi climatici. È da qui che deriva il maggiore o minore impegno nella transizione. Ci sono settori “hard to abate” dove per natura il processo di transizione energetica richiede un periodo più lungo – anche 10-15 anni, o di più in certi casi– e invece settori dove questi tempi sono ridotti. Fanno parte della prima categoria le società che producono energia attraverso combustibili fossili, ma anche settori industriali quali costruzioni, cemento, acciaio, mentre appartengono alla seconda quei settori come la moda o l’IT dove queste dinamiche possono essere gestite in pochi anni.
Qual è oggi la velocità di azione del privato rispetto alla velocità della politica/settore pubblico?
Dal 2006-2007 abbiamo visto un cambio di passo del settore privato. Prima erano le autorità e i regolatori a spingere maggiormente su questi temi e le COP erano delle conferenze che gestivano direttamente i governi, seppur con risultati più o meno controversi. Dal 2015 ad oggi il settore privato ha accelerato sensibilmente su questi fronti sotto la spinta delle crescenti richieste da parte degli investitori. Al contempo il settore pubblico ha risentito del contraccolpo dato dall’uscita degli Stati Uniti dagli Accordi di Parigi. In questo quadro, oggi anche le COP come la prossima di Glasgow, vedono nel settore privato un elemento di partecipazione necessario e direi quasi preponderante. Il modello prevalente del futuro vede un’integrazione sempre più stretta nella cooperazione fra pubblico e privato, secondo quanto si sta già vedendo nella risposta europea e globale al Covid19: è chiaro come le aziende green siano i soggetti privilegiati per godere dei fondi del Recovery Plan, nato in seno al nuovo Green Deal europeo.
Quale sarà allora il ruolo dei paesi in questo scenario e soprattutto quello dell’Italia alla luce del ruolo che quest’anno ricopre nel G20 e della costituzione del neonato Ministero della Transizione Ecologica in seno al Governo Draghi?
Per Italia si tratta di un segnale attuale e concreto molto positivo. Il Ministero della TE gestirà circa 50-70 miliardi provenienti direttamente dal Recovey Plan, è un’opportunità unica per il paese. Più in generale, il vero elemento di novità quest’anno è il ritorno sulla scena internazionale degli Stati Uniti. Al tavolo di Glasgow il vero ago della bilancia sarà la nuova amministrazione di Joe Biden. La capacità d’influenza degli Usa nei negoziati sarà fondamentale per riprendere il binario della transizione ecologica in maniera coordinata a livello mondiale.
Il 10 marzo 2021 entra in vigore il regolamento SFDR: quale impatto vi aspettate sulle aziende della zona euro? Come cambieranno i comportamenti degli investitori alla luce dei nuovi obblighi e della nuova tassonomia?
È un ottimo passo perché permette alle aziende di migliorare l’informativa sulla transizione energetica e di inserire la Climate Disclosure nella rendicontazione non finanziaria. È un passo importante compiuto nella direzione di una maggior standardizzazione delle comunicazioni che gli investitori stanno chiedendo allineandosi così alle raccomandazioni della TCFD, la Task Force on Climate-related Financial Disclosures.
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