A gennaio l’indice dei prezzi batte le stime e sale del 3,4%. Crollano le attese per una sforbiciata dei tassi a maggio. Secondo gli asset manager, occorrerà attendere l’estate
L’inflazione di gennaio spegne le ultime speranze di un allentamento anticipato da parte della Federal Reserve. Il mese scorso negli Stati Uniti i prezzi al consumo sono infatti saliti del 3,1% dal 3,4% di dicembre, oltre le previsioni degli analisti che stimavano +2,9%. Su base mensile, l’aumento è stato dello 0,3%, anche in questo caso oltre il +0,2% del consensus.
La reazione dei mercati è stata immediata, con gli indici che sono andati giù su entrambe le sponde dell’Atlantico. Dollaro e Treasury in accelerazione. I trader dei contratti future sui tassi hanno subito aumentato le attese per un taglio estivo, azzerando quelle per marzo e riducendo al 34,6% quelle per maggio, dal 52,2% della vigilia.
A pesare è in particolare il dato core, ovvero quello depurato dalla componente dei prezzi dei beni alimentari ed energetici, salito dello 0,4% a livello congiunturale, oltre le stime che prevedevano un +0,3%. Rispetto a un anno fa, l’aumento complessivo è stato del 3,9%, come il dato registrato a dicembre e contro l’attesa di un rallentamento al 3,7%. I prezzi dell’energia sono scesi dello 0,9% rispetto al mese precedente, quelli dei generi alimentari sono invece cresciuti dello 0,4%. Unanime il commento dei gestori ai dati del Bureau of Labor Statistics: la persistenza del carovita, insieme alla resistenza del mercato del lavoro e dei consumi, costringerà Powell e colleghi a temporeggiare ulteriormente prima di invertire la rotta.
“Per il momento l’inflazione rimane più rigida di quanto si pensasse. I principali fattori che hanno determinato il leggero aumento sono stati il rincaro degli alloggi, le tariffe aeree e, in misura minore, le cure mediche e l’istruzione”, analizza Christian Hantel, portfolio manager di Vontobel.Nel complesso, secondo l’esperto i dati non sono eccessivamente negativi, ma gli investitori sono stati colti di sorpresa. E le prime sforbiciate, che alcuni si aspettavano già per marzo-aprile, potrebbero allontanarsi. “La reazione del mercato mostra che la Fed potrebbe non avere fretta di tagliare i tassi d’interesse in tempi brevi”, avverte.
Greg Wilensky, head of Us fixed income & portfolio manager di Janus Henderson, pone l’accento sul fatto che mentre la tendenza alla deflazione dei beni di base rimane intatta, l’inflazione dei servizi (sia includendo sia escludendo gli alloggi) è risultata più forte del previsto. “Il dato complessivo è stato inoltre favorito da una notevole impennata dei prezzi dell’alimentare, che hanno raggiunto lo 0,4%: non si vedeva un livello così alto dall’inizio dello scorso anno”, sottolinea. Per Wilensky, quindi, sebbene la porta di un taglio a marzo fosse già chiusa, ora è ne stata gettata la chiave. “Non pensiamo che un taglio a maggio sia fuori questione, ma è logico che le probabilità si siano sostanzialmente ridotte. Con questi nuovi dati, una prima riduzione a giugno sembra l’aspettativa più ragionevole”, sostiene.
Sulla stessa linea si colloca anche Michelle Cluver, portfolio strategist di Global X. Secondo l’esperta, l’housing e altre categorie di servizi continuano infatti a rappresentare un punto focale per i mercati. “La Federal Reserve vuole probabilmente delle prove che la disinflazione si stia estendendo oltre i beni, poiché ciò dimostrerebbe che la traiettoria dei prezzi si trova su un percorso più sostenibile”, afferma. Poi conclude: “Attualmente, il meeting del Fomc in cui è lecito attendersi il primo taglio dei tassi è quello di giugno”.
Punta invece sul mese di luglio il senior market strategist di IG Italia, Filippo Diodovich. “La preoccupazione dei membri del Fomc è soprattutto legata al ritorno delle pressioni inflazionistiche, con i salari dei lavoratori che sono tornati a crescere a un ritmo sostenuto”, spiega. Per questo, conclude, non esistono al momento condizioni che permettano ai banchieri centrali americani di procedere a un cambio nelle strategie monetarie.
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